Aziende e organizzazioni che si nascondono dietro dichiarazioni ambientali poco credibili hanno i giorni contati?
Un nuovo rapporto del Grantham Research Institute rivela come i contenziosi climatici (climate litigation) stiano diventando la cartina tornasole del contrasto al greenwashing, con particolare attenzione ai controversi crediti di carbonio utilizzati per compensare le emissioni.
Cosa si intende per climate litigation?
Per ‘contenzioso climatico’ (traduzione di climate litigation) si intendono le cause intentate davanti a organi giudiziari (e quasi giudiziari (tipo procedimenti amministrativi o richieste di indagine) che coinvolgono questioni o atti rilevanti in riferimento a scienza, politica o legge sui cambiamenti climatici. Fondamentale è la centralità della questione climatica: il tema cambiamento climatico deve essere l’elemento centrale che muove la causa e non solo incidentalmente presente. Questa è la definizione a cui si attiene il rapporto, che per il conteggio dei casi fa riferimento al database del Sabin Center for Climate Change Law.
Le climate litigation possono essere rivolte sia contro Stati e governi (public climate litigation), accusati di inazione o di politiche insufficienti nella lotta al cambiamento climatico, sia contro aziende private (private climate litigation), in particolare grandi corporation responsabili di elevate emissioni di gas serra, per ottenere il riconoscimento della loro responsabilità nei danni climatici ed ambientali causati.
Secondo il rapporto “Global trends in climate change litigation: 2025 snapshot”, basato su dati raccolti dal Sabin Center for Climate Change Law, fino alla fine del 2024 sono stati depositati quasi 3.000 casi legali legati al clima in quasi 60 Paesi, con nuovi procedimenti identificati per la prima volta in Costa Rica. Gli Stati Uniti (1.899) sono seguiti da Australia (164), Regno Unito (133) e Brasile (131) in termini di volume complessivo dei casi.
La stretta sui crediti di carbonio
Le accuse di “climate washing” sono alla base della maggior parte dei contenziosi aziendali nel 2024, con un numero crescente di cause che prendono di mira proprio l’uso dei crediti di carbonio per compensare le emissioni. Le aziende che millantano neutralità climatica attraverso questi strumenti si trovano sempre più spesso sul banco degli imputati.
Il fenomeno non riguarda più solo le multinazionali del petrolio e del gas. Anche aziende dei settori alimentare, dei trasporti, della moda e dei servizi finanziari che si rivolgono a consumatori attenti alla sostenibilità sono finite nel mirino di azioni legali collettive e indagini avviate da autorità di vigilanza.
Secondo il rapporto, circa il 20% dei procedimenti legali sul clima avviati nel 2024 era indirizzato direttamente alle imprese, ai loro amministratori o dirigenti. Il rapporto conferma che “i casi di climate washing restano una delle strategie più diffuse del contenzioso aziendale nel 2024”, evidenziando un numero crescente di procedimenti legati all’uso dei crediti di carbonio per compensare le emissioni. Pur continuando a interessare le imprese dei settori più inquinanti, questi contenziosi coinvolgono sempre più anche aziende dell’alimentare, dei trasporti, della moda e dei servizi finanziari che si promuovono verso consumatori attenti alla sostenibilità.
Da sottolineare il fatto che questi contenziosi stiano raggiungendo i massimi livelli giudiziari. Dal 2015, ben 276 casi climatici sono approdati alle corti supreme e costituzionali di tutto il mondo, con risultati che stanno facendo tremare le boardroom aziendali.
Il 44% dei casi specifici per progetti decisi dalle corti supreme è stato deciso a favore dell’azione climatica, cioè della parte ricorrente. Un dato che dimostra come i giudici stiano prendendo sempre più sul serio le questioni ambientali, trasformandole da battaglia ideologica a rischio concreto per bilanci e reputazioni.
Particolarmente significativo è l’aumento dei casi “chi inquina paga”: oltre 80 cause depositate tra il 2015 e il 2024, di cui 11 solo nell’ultimo anno. Questi procedimenti cercano di ottenere risarcimenti monetari dalle aziende per le loro attività che contribuiscono al cambiamento climatico.
Per le aziende, il messaggio è chiaro: “Non è più una preoccupazione di nicchia; è sempre più vista come un rischio finanziario“. Il greenwashing, insomma, non è più un’opzione sicura.
Vale ancora la pena rischiare?
Di fronte a questo scenario, viene spontaneo chiedersi: al di là delle questioni ‘etiche’, ha ancora senso per le aziende correre il rischio di pratiche di greenwashing? I numeri suggeriscono di no. Con quasi 3.000 casi climatici depositati in 60 paesi e un tasso di successo del 44% per l’azione climatica nelle corti supreme, le probabilità di essere trascinati in tribunale – e di perdere – sono sempre più elevate. E il ricorso alla giustizia è sicuramente in aumento anche per quanto riguarda la competizione tra aziende concorrenti: non è un caso che sia nato il termine greenbickering.
Il costo reputazionale di una sconfitta in tribunale – o anche di una semplice citazione in giudizio – può essere devastante, vista la maggiore sensibilità dei consumatori verso le credenziali ambientali dei brand. E ai danni d’immagine si aggiungono ora risarcimenti monetari sempre più sostanziosi, come dimostrano i casi “chi inquina paga”.
Il valore di un racconto autentico
Il rapporto dell’LSE sottolinea che raccontare i progetti di carbon offsetting con trasparenza non è solo una tutela dai rischi legali, ma un modo per costruire una reputazione più solida e duratura.
La comunicazione ambientale deve evolvere verso la maturità. I consumatori e gli stakeholder chiedono meno slogan e più concretezza: spiegare quali progetti si sostengono, come vengono misurati i benefici ambientali e quali risultati si ottengono davvero è un passo decisivo per trasformare la sostenibilità in un vantaggio competitivo.
Catherine Higham, Senior Policy Fellow al Grantham Research Institute, ha detto:
“Gli effetti del contenzioso climatico sono ormai visibili e documentati in modo sempre più chiaro. Non si tratta più di un tema di nicchia, ma di un rischio finanziario riconosciuto.”
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