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Per ricostruire la sinistra serve una nuova agenda riformista centrata sul lavoro


Il Circolo Matteotti si è presentato a Milano due mesi fa e sta già gemmando altri circoli in diverse località. Vuole essere, in modo adeguato ai tempi, la risposta dei riformisti all’affermarsi di posizioni massimaliste nell’ambito dello schieramento progressista, o meglio nel fronte di chi si batte per la giustizia sociale.

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Che l’origine sia stata milanese non è casuale. Qui il riformismo affonda le sue radici nell’illuminismo antigiacobino delle correnti laiche e cattoliche, che troveranno poi nel riformismo socialista la principale forma politica e organizzativa. Oggi, nel rispetto di appartenenze partitiche diverse, serve un luogo di elaborazione di politiche capaci di supportare una sfida di governo a una destra tanto pericolosa per i diritti quanto inetta per il governo del Paese.

Fra la prima iniziativa di presentazione e oggi, il massimalismo ha realizzato una sonora sconfitta celebrando il più inutile dei referendum sul lavoro. La previsione del risultato era abbastanza facile, e per questo il primo appuntamento di chi vuole dare più dignità a chi lavora non poteva che avere al centro i problemi che toccano il mondo del lavoro.

Per rimanere agli slogan, più che abolire il Jobs act, c’è urgenza di presentare il Jobs act 2, un aggiornamento alla luce di cosa serve oggi per dare più tutele al lavoro.

Questo perché siamo in presenza di un mercato del lavoro che ha toccato il massimo storico per il tasso di occupazione (ricordando che resta sempre di circa otto punti inferiore rispetto alla media dell’Unione europea) e ha conseguito questo risultato con un costante aumento dei contratti a tempo indeterminato e un calo di quelli a termine. Ma i problemi strutturali del nostro mercato del lavoro, le tre G di giovani, genere e geografia, restano come macigni a indicare una crescita squilibrata. Talmente squilibrata che cresce la possibilità di lavorare, ma aumenta il lavoro povero.

Quando poniamo il tema della dignità del lavoro, poniamo quindi il tema della centralità della persona nello sviluppo del mercato del lavoro dei prossimi anni. La domanda che viene dai più giovani lavoratori è di uno scambio sempre più trasparente fra impegno lavorativo, percorso di crescita e condivisione degli obiettivi con l’azienda. Conciliare tempi di vita e di lavoro e partecipazione alla crescita dell’impresa sono le scelte che portano a preferire un impiego a un altro in una fase dove molte professionalità sono scarse.

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Su queste basi si pone poi la questione salariale. Tema importantissimo e caldo, non più aggirabile nelle aree metropolitane dove il costo della casa rende evanescenti gli stipendi di troppi lavoratori. Ma è tema generale perché la crescita dell’occupazione avviene in settori a bassa produttività, perché il ritardo dei contratti della Pubblica amministrazione riguarda una parte significativa dei lavoratori del Paese, e perché il mancato investimento per aumentare la produttività del sistema Italia lascia pochi margini di crescita. L’aumento delle diseguaglianze chiede poi interventi fiscali che portino a una redistribuzione del reddito.

Come si vede, il tema salari chiede una politica di sviluppo che metta al centro la crescita della parte da attribuire a chi lavora. Il salario minimo potrebbe aiutare la fascia di lavoratori oggi meno tutelata dai contratti nazionali, ma non può essere per legge. Una proposta di rafforzamento dell’applicazione dei contratti e di una commissione regolatrice potrebbe essere la via per mantenere la centralità del ruolo sindacale e dare più tutele a chi oggi ne ha meno.

La nuova fase deve vedere un deciso impegno per fare funzionare le politiche attive del lavoro. Oggi, la vita lavorativa delle persone è sempre più fatta di molti lavori e in imprese diverse. Le transizioni che interessano la vita lavorativa delle persone – sia che avvengano volontariamente, e soprattutto se involontarie – devono trovare nei servizi al lavoro un punto di riferimento che sia in grado di guidare verso una nuova occupazione. Sempre più, queste transizioni saranno legate a processi formativi richiesti da cambiamenti tecnologici che interessano il sistema produttivo.

Oggi, a partire dalla prima transizione fra il percorso formativo e la prima occupazione, il nostro Paese è fermo, senza servizi di orientamento adeguati né la capacità di prendere in carico il mismatching formativo denunciato dalle imprese, né il sottomansionamento di molti giovani che hanno investito nella formazione.

Senza interventi decisi, rischiamo un nuovo dualismo che separa un nucleo di lavoratori che godono di tutte le tutele e un crescente numero di lavoratori a bassa tutela e basso salario. All’inizio, fonte di frustrazione per le persone e base per uno sviluppo a basso tenore di crescita per tutta la società. Fonte di nuove ingiustizie, assenza di crescita sociale ed economica. Ma se il lavoro perde la capacità di essere fonte di relazione dignitosa fra gli uomini, come pensiamo possa costruirsi una società più giusta?

Servirà una proposta politica adeguata per supportare il Jobs act 2. Riteniamo anche che serva una presenza sociale più forte – la disintermediazione ha fatto danni –. Puntare a rappresentanze capaci di coniugare proposte di nuove tutele e responsabilità nel partecipare alla realizzazione dei percorsi attuativi è un salto da fare con un forte impegno culturale.

La sfida, per questo, è di riprendere il percorso per una unità sindacale che è stata tradita da chi ha pensato a un ruolo politico di primo piano per il sindacato, slegandolo dalla capacità di esercitare il suo ruolo nell’economia. Un nuovo patto per dare dignità al lavoro è per noi un patto sociale capace di proporre un nuovo sviluppo sostenibile come proposta di tutte le forze politiche progressiste e di rimettere in moto l’obiettivo di una nuova unità sindacale.

Per discutere idee e raccogliere nuove proposte, l’appuntamento è il 10 luglio alle 17.30 in via Volturno 32, presso Slow Mill a Milano.

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