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Mezza Italia dovrà essere accompagnata in un percorso di spopolamento irreversibile…


Secondo il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne, molti comuni delle aree interne che si trovano lontani dai centri dove si concentrano i servizi essenziali vanno semplicemente assistiti in un percorso di declino e invecchiamento e non possono aspirare a una inversione di tendenza. Tante le voci che si sono sollevate contro la decisione del Governo, ritenendola inaccettabile.

Non si placano le discussioni generate dal nuovo “Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne” firmato dal ministro per le Politiche di coesione (e per gli Affari europei e il Pnrr) Tommaso Foti, nel quale circa quattro mila comuni italiani – con una popolazione pari al 23% del totale nazionale – vengono definiti secondo una distinzione su quattro tipologie di obiettivi. Uno dei quali (il numero 4) così recita:

Finanziamenti e agevolazioni

Agricoltura

 

Una frase decisamente esplicativa che pare voler ammettere l’impossibilità di mettere in campo una strategia utile a favorire la “restanza” o il ritorno di persone, famiglie e attività economiche o agricole in quelle aree definite da molti come “marginali” e in continuo e progressivo spopolamento.

Se le parole hanno (ancora) un senso logico, il nuovo Piano del Governo dà per assodato che gran parte di questi quattromila comuni non abbiano un futuro e debbano, appunto, essere semplicemente aiutate a gestire una lenta agonia anagrafica e sociale. Come indica Alfonso Scarano su il Fatto Quotidiano «Non si investirà più per trattenere i giovani o attrarne di nuovi. Non si costruiranno più servizi in quei luoghi. Si pianificherà una dignitosa decadenza: un welfare del tramonto che fornisca badanti e medicine, ma non opportunità né speranza».

Franco Arminio, poeta e paesologo, ha espresso puntualmente il suo stupore «Non immaginavo che si potesse arrivare a concepire vasti territori dell’Italia come un Hospice per malati terminali».

Il Presidente dell’Uncem (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani) Marco Bussone ha invitato il Governo ad eliminare il paragrafo “incriminato” «per il bene del Paese, per la sua coesione alla quale tutti e tutte lavoriamo. Ma per stralciarlo, azzerare quel punto, occorre sciogliere un nodo importante. Ovvero, quanto investiremo in termini di milioni e miliardi di euro sulle aree interne e montane dal 2026 al 2034, in questa e nella nuova Programmazione comunitaria, andando oltre le 73 più 43 aree interne sperimentali, unendo SNAI a Strategia delle Green Community a Strategia per la Montagna, favorendo gli investimenti pubblici e per le imprese, evitando che le strategie siano solo per il Mezzogiorno, e che le sperequazioni territoriali siano viste solo tra nord e sud del Paese, individuando strumenti per la riorganizzazione istituzionale, la governance e il lavoro insieme dei Comuni, favorendo la managerialità negli Enti locali che condividono funzioni e servizi sulla stessa valle e sull’ambito territoriale ottimale, modificando norme nazionali in particolare su scuole e sanità che permettano di potenziare servizi pubblici decisivi. Come esiste l’Agenda Urbana, il Ministro Foti e il Vicepresidente della Commissione UE Fitto possono individuare finalmente una Agenda europea e nazionale per la Montagne e per le Aree interne. Solo così evitiamo lo spopolamento. Che, secondo Uncem, non è irreversibile».

Per l’antropologo e studioso Vito Teti «le politiche che si stanno adottando sono tali da rendere irreversibile il fenomeno dello spopolamento. Anziché alimentare speranza e fiducia si insiste sulla difficoltà e sull’impossibilità di fare interventi che possono cambiare in maniera radicale le cose. Il problema non è solo di ordine strutturale, economico e demografico, ma è proprio di ordine antropologico-culturale e di creazione di una sorta di disaffezione ai luoghi da parte dei giovani che non trovano un buon motivo per restare, oltre alla mancanza di interventi che realizzino esperienze positive, in controtendenza rispetto allo spopolamento. Non si dice ai giovani che hanno il diritto di restare, che possono impegnarsi e mobilitarsi per cambiare le cose. Non si dice ai giovani che possono avere la speranza di cambiare le cose, questa è una sorta di resa e di requiem per paesi che sono moribondi ormai da circa settant’anni e che adesso stanno arrivando a una vera e propria morte. In alcune dichiarazioni sembra quasi ci si rassegni a una sorta di eutanasia dei paesi, mentre bisognerebbe dire che i paesi hanno diritto di vivere anche se hanno un solo abitante, che semmai dovrebbero essere messi in condizioni di vivere bene e dignitosamente».

Quanti anni sono trascorsi da quel particolare periodo in cui la pandemia in atto pareva avere innescato un processo di nuovo interesse per la vita di comunità lontane dalle grandi aggregazioni metropolitane?

Sembrerebbero secoli, non anni. E la “Politica” non pare certamente possederne memoria…

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