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Professionisti stranieri, una risorsa essenziale


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Ancora carenze nel personale sanitario – Archivio

Tra inverno demografico e difficoltà a trovare personale qualificato, le aziende italiane chiedono da tempo una revisione del decreto Flussi per aprire le porte a imprenditori e professionisti stranieri. In particolare chi è disposto a investire nel Belpaese non meno di 500mila euro, artisti “di chiara fama” e potenziali creatori di start up innovative. Lo prevede il quarto comma dell’articolo 6 del decreto varato dal Consiglio dei ministri. Come si legge nel testo, è prevista l’ammissione di «complessivi 1.500 cittadini stranieri residenti all’estero, per n. 500 unità per ciascun anno», appartenenti a categorie professionali specifiche. Ovvero, imprenditori «che intendono attuare un piano di investimento di interesse per l’economia italiana, che preveda l’impiego di risorse proprie non inferiori a 500mila euro, nonché la creazione almeno di tre nuovi posti di lavoro»; liberi professionisti «che intendono esercitare professioni regolamentate o vigilate, oppure non regolamentate, ma rappresentate a livello nazionale da associazioni che rilasciano un attestato di qualità dei servizi e di qualificazione professionale dei soci»; titolari di cariche societarie «di amministrazione e di controllo espressamente previsti dal decreto interministeriale 11 maggio 2011, n. 850». Sì anche all’ingresso di artisti «di chiara fama o di alta e nota qualificazione professionale, ingaggiati da enti pubblici o privati» e di «cittadini stranieri che intendono costituire imprese “start up innovative” ai sensi della legge 17 dicembre 2012, n. 221 e che sono titolari di un rapporto di lavoro di natura autonoma con l’impresa».

Un’impresa su tre assumerà personale extra Ue

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Un’impresa su tre ha in programma di assumere lavoratori stranieri extra Ue entro il 2026 o lo ha già fatto tra il 2021 e il 2023. A spingere gli imprenditori a rivolgersi all’estero per soddisfare il proprio fabbisogno occupazionale è principalmente la mancanza di lavoratori italiani segnalata dal 73,5% delle imprese. Anche per questo il 68,7% delle aziende è disposto ad investire entro il 2026 in formazione del personale straniero, a fronte del 54,5% di quelle che non assumono lavoratori extra Ue. È quanto emerge dall’indagine di Unioncamere e Centro Studi Tagliacarne su un campione di 4.500 imprese manifatturiere e dei servizi con addetti compresi tra cinque e 499.

Il 47,1% delle imprese prevede di assumere operai specializzati extra Ue entro il 2026 o li ha assunti tra 2021e il 2023. Mentre il 32,6% assumerà o ha assunto operai generici, il 13,3% lavoratori del terziario, l’11,1% artigiani, il 9,3% per tecnici specializzati, il 4,9% per professionisti altamente qualificati e appena l’1,1% per manager.

Sono soprattutto le imprese del Nord Est a ricorrere a lavoratori stranieri per fare fronte ai loro piani di assunzione. Il 36,5% delle imprese del Triveneto assumerà personale extra UE entro il 2026 o lo ha già fatto tra il 2021-23, a fronte del 31,8% del totale del sistema imprenditoriale italiano. A trainare sono soprattutto le imprese del Trentino-Alto Adige (39,1%), seguite da quelle del Veneto (37,6%) e del Friuli-Venezia (36,8%). Sul fronte opposto meno dinamica è la domanda proveniente dal Mezzogiorno, solo il 28,6% delle imprese meridionali ha in programma o ha programmato di assumere lavoratori non europei.

La difficoltà di trovare lavoratori italiani motiva il 73,5% delle imprese a cercare personale straniero fuori dall’Ue. A seguire, anche se in misura sensibilmente minore, tra le altre motivazioni indicate troviamo: la mancanza di giovani derivante dal calo demografico (12,6%), migliori competenze tecniche da parte dei lavoratori stranieri (9,4%) e, solo marginalmente, il minore costo del lavoro (3,0%).

Più imprese manifatturiere, più tecnologiche, più grandi: è questo l’identikit delle realtà imprenditoriali che mostrano una maggiore propensione ad assumere lavoratori extra europei. Il 37,2% delle imprese industriali ha pianificato di farlo entro il 2026 o lo ha fatto tra il 2021 e il 2023, a fronte del 27,4% di quelle dei servizi. E se nel manifatturiero, il 40,2% delle imprese che ricorre al mercato del lavoro al di fuori dell’Ue appartiene ai settori ad alta tecnologia, nei servizi il 36,2% opera nei settori a bassa intensità tecnologica. Nel complesso la metà delle aziende che assumono stranieri non europei, impiega tra 50 e 499 addetti, a fronte del 27,3% delle piccole.

L’allarme nella sanità

«Da sempre chiediamo alla Commissione europea e agli Stati membri di facilitare l’ingresso e il riconoscimento dei professionisti della sanità stranieri, senza per rinunciare a controlli seri e trasparenti. Ma attenzione: non si può generalizzare né colpire indiscriminatamente chi è preparato, formato e già integrato nel nostro sistema sanitario». A lanciare l’allarme sono Amsi- Associazione medici di origine straniera in Italia, Umem-Unione medica euromediterranea, Aisc News-Agenzia internazionale per l’informazione, e il Movimento internazionale uniti per unire, attraverso i rispettivi direttivi e con l’intervento del prof. Foad Aodi, fondatore delle suddette organizzazioni, direttore dell’Aisc, esperto in salute globale, membro del Registro esperti FNOMCeO, quattro volte consigliere dell’Ordine dei medici di Roma e docente all’Università di Tor Vergata.

Aodi interviene con fermezza sulla procedura d’infrazione avviata dalla Commissione Europea contro 14 Paesi, tra cui l’Italia, accusati di non aver ancora recepito in modo corretto la direttiva comunitaria per il riconoscimento dei titoli di infermieri romeni conseguiti prima del 2007: «Ci sono Università che purtroppo non rispettano i requisiti formativi minimi, ma questo non significa penalizzare un’intera categoria. Serve equilibrio e valutazioni puntuali, non generalizzazioni che colpiscono anche i professionisti più preparati e motivati».

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Aodi lancia un appello forte: «Non possiamo permetterci il lusso di respingere chi può aiutare a colmare la più grave carenza di personale sanitario mai vissuta nel nostro Paese. Stiamo pagando anni di disattenzione politica verso la sanità pubblica. Riaprire vecchie ferite burocratiche significa aggravare una situazione già critica».

Alla data del 30 aprile 2025, in Italia operano circa 43.600 infermieri stranieri, con i romeni al primo posto: oltre 12mila. Tuttavia, oltre 11mila tra infermieri e fisioterapisti formati all’estero non lavorano nel nostro sistema sanitario: il 25% ha ricevuto un rigetto formale, mentre il restante 75% non ha mai presentato domanda, scoraggiato da lungaggini, burocrazia, costi elevati e sfiducia verso le istituzioni. La direttiva europea prevede un percorso agevolato di inserimento per gli infermieri romeni diplomatisi prima del 2007, purché abbiano completato un corso di aggiornamento. Tuttavia, molti Stati – Italia compresa – non hanno ancora attivato meccanismi adeguati di riconoscimento. Bruxelles ha concesso due mesi di tempo per regolarizzare la situazione. In caso contrario, si passerà alla seconda fase della procedura, con possibile deferimento alla Corte di Giustizia e sanzioni economiche.

Osservatorio sul distacco transnazionale dei lavoratori

Intanto si è insediato il rinnovato Osservatorio sul distacco dei lavoratori, organismo paritetico istituito ai sensi dell’art. 6 del decreto legislativo n. 136/2016 e ricostituito con il decreto ministeriale n. 67/2025, che ha il compito di monitorare il fenomeno del distacco transnazionale e promuovere una corretta informazione sulle condizioni di lavoro e di occupazione.

L’Osservatorio, che si riunirà con cadenza trimestrale salvo necessità, riflette la nuova organizzazione del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e vede la partecipazione di rappresentanti istituzionali (ministero, Inps, Inapp, Inl), delle parti sociali (Cgil, Cisl, Uil, Confindustria, Confcommercio, Confartigianato) nonché della Presidenza del Consiglio.

In un momento di profonda trasformazione del mercato del lavoro, l’Osservatorio assume un ruolo strategico, anche a livello europeo per:

  • garantire trasparenza e accesso alle informazioni per imprese e lavoratori;
  • promuovere condizioni di lavoro dignitose e retribuzioni eque;
  • contrastare fenomeni di concorrenza sleale e dumping sociale.

Durante la riunione si è dato conto dello stato dei negoziati europei relativamente alla proposta di Regolamento Ue per la costituzione di un’interfaccia pubblica per migliorare la gestione e la trasparenza delle dichiarazioni di distacco dei lavoratori.

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La ricostituzione dell’Osservatorio è stata accolta con grande favore da tutte le parti sociali e dai soggetti istituzionali presenti al Tavolo, che considerano l’organismo come preziosa sede di confronto per seguire l’evoluzione del fenomeno del distacco transnazionale.

L’analisi dei dati e la collaborazione tra istituzioni e parti sociali saranno fondamentali per disegnare politiche del lavoro più efficaci e inclusive, anche attraverso la pubblicazione di contenuti chiari e aggiornati sul portale istituzionale.

Avvocati, accordo con il Regno Unito per cooperazione

Un memorandum d’intesa per costruire nuovi ponti professionali tra Italia e Regno Unito, in uno scenario post-Brexit che richiede collaborazione e visione comune. È quello siglato nella sede del Consiglio nazionale forense tra il Cnf e la Law Society of England and Wales, l’Ordine nazionale che rappresenta i legali in Inghilterra e Galles. A firmare l’accordo i rispettivi presidenti, Francesco Greco e Richard Atkinson, con l’obiettivo di «rilanciare il dialogo e la cooperazione tra le due avvocature, facilitando l’attività professionale nei rispettivi Paesi» nell’ambito dell’Accordo di Commercio e Cooperazione (Tca) tra Unione Europea e Regno Unito. Tra i punti principali del protocollo, spiega il Cnf in una nota, la conferma per gli avvocati italiani della possibilità di fare attività stragiudiziale in Inghilterra e Galles nelle materie di diritto italiano, europeo e internazionale, utilizzando il proprio titolo professionale. Nello stesso tempo, il Cnf si impegna a promuovere in Italia la creazione di un Registro speciale dei consulenti giuridici stranieri, che consentirà agli avvocati britannici di fornire consulenza in diritto inglese e internazionale, mantenendo il proprio titolo e nel rispetto delle regole italiane. L’intesa apre anche a nuove opportunità di crescita: gli avvocati italiani con almeno due anni di esperienza potranno ottenere il titolo di Solicitor of England and Wales superando solo la prima parte dell’esame di abilitazione (SQE1). L’obiettivo è di consentire l’iscrizione agli avvocati inglesi presso gli Ordini locali con le caratteristiche sopra menzionate. Altro obiettivo strategico è favorire la nascita di partnership e studi associati tra professionisti dei due Paesi, promuovendo scambi, sinergie e una visione internazionale della professione legale. «Questo accordo rafforza la vocazione europea e internazionale dell’avvocatura italiana», ha dichiarato Greco, sottolineando che si tratta di «un segnale forte di apertura e collaborazione, a tutela dei diritti dei cittadini e della qualità della giustizia».





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