Negli ultimi giorni si discute molto del futuro delle Aree Interne, anche alla luce del nuovo documento strategico nazionale PSNAI 2021–2027. È una questione cruciale: circa il 60% del territorio italiano rientra in questa classificazione, con interconnessioni dirette su temi fondamentali come l’urbanizzazione, lo spopolamento, l’invecchiamento della popolazione e le fragilità economiche. Non si tratta solo di una sfida italiana, ma di un tema europeo che tocca la coesione sociale, la sostenibilità e la competitività territoriale.
L’Unione Europea ha da tempo messo in campo strumenti finanziari e programmatici per contrastare marginalizzazione e declino demografico: dall’Agenda Rurale 2040 ai fondi di coesione, dalla PAC ai programmi LEADER, Digital Europe, Horizon Europe ed il discutibile Green Deal. L’obiettivo è rafforzare i servizi, sostenere le imprese locali, incoraggiare i giovani agricoltori, promuovere innovazione e sostenibilità. In totale, oltre 750 miliardi di euro sono destinati in Europa a coesione, sviluppo rurale e transizione ecologica; di questi, circa 100 miliardi spettano all’Italia, inclusi i cofinanziamenti nazionali.
Ma la questione non può essere affrontata solo in termini economici, né ridotta a logiche di breve periodo o a dinamiche di potere locale. Il nodo cruciale è la capacità di investimento dei territori: quanto si riesce davvero a tradurre risorse in sviluppo, servizi, opportunità, sulla base di strategie concrete e coerenti?
L’Umbria è un caso emblematico. Regione interamente interna, priva di grandi centri urbani, con due capoluoghi di dimensioni, tutto sommato, contenute, qualche cittadina ed oltre il 60% dei 92 comuni con meno di 5.000 abitanti, complessivamente 800 mila abitanti in diminuzione. La fragilità infrastrutturale è evidente: i collegamenti interni e verso le grandi città – come la linea ferroviaria Orvieto–Roma – restano inadeguati. Il sistema sanitario è in affanno: liste d’attesa raddoppiate, carenza di personale medico, riduzione dei servizi negli ospedali periferici. Criticità che permangono al di là dell’alternanza politica e dei proclami, segno di un problema strutturale profondo che richiede riforme efficaci e sostenibili.
Anche il sistema scolastico è sotto pressione, con molti comuni a rischio chiusura delle scuole per denatalità. L’economia regionale è debole, la popolazione tra le più anziane del Paese. L’Umbria oggi è classificata a livello europeo come “regione in transizione” e, per diversi indicatori socioeconomici, si avvicina più al Mezzogiorno che al Centro-Nord. Un dato che va sottolineato con decisione: la gran parte delle risorse europee sono destinate alle regioni del Sud, e una riclassificazione dell’Umbria potrebbe aprire maggiori opportunità di finanziamento.
La criticità maggiore, tuttavia, resta l’eccessiva frammentazione istituzionale. A questa si aggiunge una miriade di enti, convenzioni intercomunali, e progettualità si sovrappongono su territori in base a confini variabili, ostacolando una pianificazione efficace. Mancano visione strategica e riforme strutturali. La recente manovra regionale, purtroppo, non va in questa direzione: si aumenta la pressione fiscale, ma non si intravedono politiche e risorse per il riordino istituzionale territoriale, tanto meno una razionalizzazione del sistema degli enti e società locali. Eppure, come ricordava un grande leader socialista, “non vi è chi non veda che la crisi dello Stato è da tempo ormai un fattore di accelerazione della crisi economico-sociale”. Ciò è vero a livello nazionale e regionale.
Le regioni più avanzate hanno già intrapreso da anni processi di riordino istituzionale, puntando su unioni di comuni e semplificazione amministrativa. In Umbria, dove queste riforme sarebbero ancora più necessarie, il tema resta un tabù. Eppure, già la L.R. 9/1995 individuava 12 comprensori come riferimento per la programmazione sociale e turistica. È da lì che occorre ripartire, superando le attuali frammentazioni e geometrie variabili, per costituire vere unioni di comuni attorno ai capoluoghi territoriali. Solo così l’organizzazione regionale potrà trasformarsi in una leva di sviluppo, miglioramento dei servizi ed efficacia delle iniziative. Mentre il riassetto del sistema sanitario -ineluttabilmente- dovrebbe aprire la strada a forme interregionali di organizzazione funzionale.
Non servono retoriche sui servizi ecosistemici – pur riconoscendone il valore – o polemiche su una frase di un documento della PSNAI ma riforme coraggiose, visione istituzionale e capacità di governo del cambiamento.
In questo scenario, l’Area Interna Sud-Ovest Orvietano – una delle aree pilota della Strategia Nazionale per le Aree Interne – rappresenta un caso paradigmatico. Dimensionata a suo tempo più per logiche politiche che per coerenza territoriale, comprende 19 comuni, a fronte dei 12 del comprensorio orvietano a cui sarebbe stato più naturale fare riferimento. Le risorse disponibili sono modeste rispetto all’estensione dell’area e alla complessità dei bisogni; la frammentazione istituzionale e la moltiplicazione dei soggetti teoricamente sinergici di fatto indeboliscono qualsiasi tentativo di visione strategica, che peraltro in considerazione dell’estensione dovrebbe tener conto di sub-ambiti dialoganti con gli enti di riferimento dei singoli comuni.
È fondamentale che Orvieto e i comuni dell’Orvietano facciano sistema, superando divisioni e assumendo un ruolo strategico all’interno della regione in fatto di riforma dell’architettura istituzionale. Serve una visione di “Grande Orvieto”, politicamente forte e capace di incidere sulle decisioni regionali, dotata di un assetto istituzionale ed organizzativo in grado di valorizzare pienamente il territorio, attuare politiche di sviluppo efficaci e promuovere il benessere dei cittadini.
L’unione dei comuni dell’Orvietano dovrebbe essere la vera priorità politica. Il resto è rumore di fondo. Esistono unioni di comuni solide e funzionali in molte regioni del Nord, esistono le città metropolitane: è davvero impensabile che una città come Orvieto, insieme ai comuni del suo territorio, non possa costituire un’unione istituzionale capace di diventare motore dello sviluppo economico e del benessere collettivo? L’interrogativo riguarda l’Orvietano ed, ovviamente, riguarda tutti i capoluoghi di territorio. Riguarda la politica della regione. È questa la sfida che conta davvero. Senza un disegno chiaro e riformatore, tutto il resto è solo teatro politico e corsa al potere.
Gian Luigi Maravalle,
sindaco di Ficulle
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