Questo articolo su Tiziana Monterisi e la sua RiceHouse fa parte dello speciale reportage con alcuni esempi virtuosi di imprenditori e imprenditrici giovani, pubblicato sul numero 28/29 di Vanity Fair, in edicola fino al 15 luglio.
Architetta e «nativa ecologica», Tiziana Monterisi ha costruito un’impresa – e una vita – su un’intuizione radicale: trasformare gli scarti del riso in materiali da costruzione. Una sfida che ha mosso i primi passi nel 2008 per poi diventare concreta nel 2016, quando con il compagno Alessio Colombo, geologo, ha fondato RiceHouse, che oggi è una società benefit con 17 dipendenti, 2,8 milioni di fatturato e clienti importanti come Terna, Eni e Autogrill.
RiceHouse prende ciò che normalmente si brucia – pula, lolla, paglia – e lo trasforma in isolanti, intonaci, pannelli, arredi e complementi. È una vera rivoluzione, tanto che, nel 2022, si aggiudica il Compasso d’Oro con il pannello RH120.
RiceHouse, che oggi è un modello vincente e un virtuoso esempio di economia circolare, ha richiesto coraggio, passione, impegno e perseveranza: «Per 10 anni più che costruire abbiamo divulgato la cultura dei materiali naturali. A un certo punto abbiamo dovuto prendere atto che quel progetto non stava decollando». Ma Tiziana non ha desistito e oggi RiceHouse è diventata un riferimento, tanto che è protagonista alla 19a Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, dove i suoi materiali sono stati scelti per ben tre padiglioni: quelli del Regno Unito e dell’Uzbekistan, e la Fabbrica dell’Aria alle Corderie dell’Arsenale.
L’intervista a Tiziana Monterisi, fondatrice di RiceHouse
Come nasce RiceHouse e in che modo la vostra attività si è evoluta negli anni?
«Tutto parte da un’esperienza personale: da architetta neolaureata, ero affascinata dai materiali naturali. Ho cercato a lungo di introdurli nel mercato edilizio, grazie anche al supporto del mio compagno Alessio, che allora lavorava in Regione Piemonte. Abbiamo persino avviato un’impresa edile insieme a Michelangelo Pistoletto, per costruire “nuovi organismi di vita abitativa”, ma nel 2015, dopo anni di divulgazione e pochi cantieri, abbiamo capito che era il momento di cambiare. E così, nel 2016, è nata RiceHouse, come startup innovativa e società benefit. All’inizio era solo un’idea: volevamo vendere il know-how della casa di riso a chi già costruiva. Ma nel 2018 abbiamo deciso di produrre direttamente. Così siamo usciti allo scoperto alla fiera Klimahouse con tre prodotti di intonaci e isolanti a base di paglia di riso. Da lì, è partito tutto».
Avete avuto anche un percorso con diversi premi. Quanto sono stati importanti per aprirvi la strada e farvi conoscere?
«Fondamentali. Ci hanno dato visibilità ma anche accesso a consulenze di altissimo livello — da McKinsey a Bain — che altrimenti non avremmo potuto permetterci. Vincere B Heroes nel 2020 ci ha permesso di ottenere un investimento in equity di 150.000 euro, aprire a nuovi soci e trasformare la startup in una vera azienda».
E oggi che cosa è RiceHouse?
«Una realtà strutturata, con 17 dipendenti, un consiglio d’amministrazione e soci che partecipano alle decisioni strategiche, anche se siamo ancora noi i soci di maggioranza. Fino al 2020 avevamo un fatturato sotto i 200.000 euro. Poi c’è stata la svolta: l’anno successivo abbiamo chiuso con 1 milione e mezzo, oggi il bilancio 2024 segna 2,8 milioni. Una crescita che ha significato anche strutturazione: oggi Ricehouse ha un’unità di progettazione, una di prodotto, un’area dedicata all’open innovation, l’amministrazione, la comunicazione. È un’azienda a tutti gli effetti».
Ma cosa offre, esattamente, Ricehouse?
«Dipende dal cliente: c’è chi acquista da noi solo il materiale, chi il progetto architettonico su misura. E poi ci sono i clienti chiavi in mano, che si affidano a noi dall’inizio alla fine, per avere una casa fatta di riso. È un sistema aperto, dove anche chi ha già il proprio progettista può usare semplicemente i nostri materiali, ad esempio per isolare una casa già esistente».
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