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Economia e guerra dei dazi: intervista a Edgardo Sica – UNIFG


di Dario Patruno

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Alla luce degli avvenimenti internazionali e delle preoccupazioni che assillano le persone e le imprese pugliesi, abbiamo pensato di porre alcune domande  ad Edgardo Sica, Professore Associato di Economia Politica presso il Dipartimento di Scienze Sociali (DiSS) dell’Università di Foggia dove insegna MICROECONOMIA e STATO MERCATO E IMPRESE, nonché docente di Economia del Turismo all’Unitelma Sapienza di Roma, al fine di acquisire indicazioni utili a comprendere il momento storico in atto e opportuni suggerimenti operativi.


 

Egregio professore, che spiegazione si è dato sulla nascita della “guerra” dei dazi con l’avvento dell’Amministrazione Trump?

La “guerra dei dazi” rappresenta una svolta significativa nella politica commerciale a livello globale ed è parte di una strategia più ampia volta a riscrivere le regole del commercio mondiale a vantaggio degli Stati Uniti. Se da un lato, infatti, gli obiettivi dichiarati dall’Amministrazione Trump sono quelli di ripristinare la competitività dell’economia statunitense, soprattutto nel settore manifatturiero, di rafforzare le industrie strategiche – come quelle tecnologiche e dell’acciaio – e di ridurre il deficit commerciale, in particolare con la Cina, dall’altro lo strumento tariffario è utilizzato come arma negoziale al fine di costringere i partner commerciali a rivedere eventuali accordi esistenti.

Si tratta, tuttavia, di una politica economica molto rischiosa che facilmente si traduce in una vera e propria “tassa” sui consumatori americani. L’applicazione di un’imposta su un bene importato ne aumenta infatti il prezzo: se chi lo vende non riesce a coprire questo costo aggiuntivo, lo “scaricherà” sul consumatore finale.

Inoltre le barriere tariffarie distorcono i meccanismi di scambio commerciale, interrompono le catene di approvvigionamento e determinano una maggiore incertezza per le imprese multinazionali, compromettendo, nel complesso, l’efficienza allocativa dei mercati. Rappresentano, non di meno, un invito alla rappresaglia commerciale: la Cina, ad esempio, ha risposto con dei contro-dazi oltre che con la sostituzione delle importazioni con la produzione interna, aumentando ulteriormente il rischio di generare un nuovo protezionismo globale. 

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Quali suggerimenti darebbe all’Unione europea per avere un impatto non devastante sulle imprese e il 10% di cui si parla in queste ore, sarebbe una misura vantaggiosa?

L’Unione europea si trova in una posizione delicata nel negoziare con gli Stati Uniti su dazi e contromisure commerciali. L’accettazione di un dazio universale del 10% sulle esportazioni verso gli USA può essere considerata una misura gestibile dal punto di vista economico a patto però che venga accompagnata da una strategia industriale e commerciale che rafforzi la capacità dell’Unione Europea di competere globalmente, anche attraverso una maggiore integrazione tra politiche industriali e climatiche.

Se è vero, infatti, che il 10%, di per sé, non rappresenta un onere insostenibile per il sistema produttivo europeo, è altrettanto vero che questo tipo di misura – se non viene strategicamente inserita nell’ambito di una visione complessiva – può tradursi in un mero aumento dei costi per le imprese, con ricadute significative sull’economia reale. Per ridurre al minimo questo rischio, sarebbero quindi opportuni dazi differenziati in base alla sensibilità del settore, negoziando esenzioni temporanee o permanenti per alcuni settori critici.

Si pensi, ad esempio all’industria automobilistica che sta affrontando una transizione epocale verso l’elettrico e di cui è fondamentale preservarne la competitività globale. Sarebbe altrettanto auspicabile investire maggiormente nella produzione locale di componenti chiave (es. chip, batterie) per ridurre la dipendenza da mercati esteri, promuovere accordi bilaterali con altri partner commerciali (Canada, Giappone, India) e sostenere le imprese esportatrici con agevolazioni fiscali, in particolare quelle che operano in settori dove la concorrenza cinese è più aggressiva. 

Le guerre in atto come incidono sulle “tasche” dei consumatori europei e italiani in particolare?

Le tensioni geopolitiche, dalla guerra in Ucraina ai conflitti in Medio Oriente fino alle frizioni USA-Cina, hanno un impatto diretto sui prezzi per i consumatori europei. La guerra in Ucraina, ad esempio, ha determinato ripercussioni sui mercati del gas e del petrolio, destabilizzando i costi dell’energia sia a livello domestico che industriale. Non solo. I conflitti provocano rilevanti incrementi dei tempi e dei costi di spedizione, soprattutto via mare (es. Suez, Mar Rosso), con conseguenti inefficienze nelle catene di fornitura.

L’aumento dei costi intermedi si traduce nella fissazione di prezzi finali più alti da parte delle imprese e, pertanto, in una spinta inflazionistica. Si tratta della tipica inflazione da offerta: l’aumento dei costi di produzione, cioè, fa contrarre l’offerta aggregata di beni e servizi determinando un aumento dei prezzi e una contrazione del livello del PIL. L’Italia, caratterizzata da un’elevata presenza di piccole e medie imprese orientate all’export, risulta particolarmente esposta ai rischi legati a interruzioni delle catene del valore globali che possono tradursi in una perdita di competitività del made in Italy.

Inoltre, il clima di incertezza geopolitica scoraggia gli investimenti strategici, specialmente nei settori più integrati a livello internazionale, come l’automotive, la chimica e la tecnologia. Infine, la crescita della spesa militare, rischia di sottrarre risorse a investimenti fondamentali per la ripresa strutturale del Paese.

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Quali consigli darebbe agli imprenditori che volessero investire in Puglia e in particolare ai giovani desiderosi di investire i loro talenti, usciti dal percorso universitario in una start app?   

Il mio consiglio è quello di concentrarsi su nicchie di mercato quali la salute digitale, la smart agriculture, il turismo intelligente, la logistica marittima e sostenibile, tutte aree poco coperte ma allo stesso tempo molto promettenti a livello regionale. La presenza di incubatori tecnologici all’interno dei poli universitari pugliesi, insieme all’apertura delle università verso collaborazioni con il mondo produttivo, rappresenta un’opportunità preziosa per i giovani interessati all’imprenditorialità.

Questi elementi favoriscono infatti il trasferimento tecnologico e l’accesso a competenze altamente qualificate. Inoltre, la collocazione strategica della Puglia dovrebbe naturalmente spingere una start-up locale a guardare subito all’export e all’internazionalizzazione, in particolare verso l’area adriatica e il bacino del Mediterraneo. 


 

L’aumento delle spese nella misura del 5% del Pil destinato alla Difesa sia pure in 10 anni, penalizzerà le spese in altri settori quali per esempio sanità, istruzione e servizi sociali? 

Questa domanda tocca un punto delicatissimo e cioè il trade-off tra sicurezza e welfare. Come ho già detto, la crescita della spesa militare associata alle tensioni geopolitiche, rischia di sottrarre risorse a investimenti fondamentali per la ripresa strutturale del Paese. L’aumento progressivo della spesa militare al 5% del PIL in dieci anni richiede infatti un impegno finanziario notevole. Se non accompagnato da una crescita economica robusta o da una riduzione di sprechi e inefficienze in altre voci di spesa pubblica, è inevitabile che ci saranno pressioni su altri settori strategici.

Tuttavia, questo rischio si ridurrebbe qualora l’aumento della spesa militare fosse accompagnato da investimenti in tecnologia civile-militare, generando effetti moltiplicativi sul PIL oltre ad un ritorno positivo in termini di innovazione e produttività. Un equilibrio sostenibile passa per una razionalizzazione della spesa pubblica volta a favorire una maggiore efficienza della stessa. Insomma, il rischio di crowding out esiste, ma può essere mitigato con una programmazione attenta e un uso intelligente delle risorse.


 

Nel ringraziare il prof per le sue dettagliate risposte, l’auspicio è affidato alle scelte di politica economica di esperti analisti disinteressati ed eticamente motivati, perché rispondere alla propria coscienza – prima che alle “mode” – è il miglior avvio di una politica che si interessi in primis adei fragili e dei deboli.

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