– di Vincenzo D’Anna* –
Hai voglia a scriverlo, riscriverlo e predicarlo! Lo statalismo impera dentro e fuori la politica. Per la maggioranza degli italiani lo Stato è come un animale mitologico, una chimera, perché in esso si fondono due diverse concezioni (e opinioni) della vita: l’assistenza per quanti, sottoforma di clienti ed elettori, pretendono elargizioni e beneficenza ed il menefreghismo laddove gli stessi soggetti si trasformano poi in evasori di tasse e balzelli. Queste due parti si ricongiungono, combaciando tanto perfettamente, che non si scorgono segni di discontinuità e quel che ne viene fuori è l’archetipo dell’italiano. Un simpatico mascalzone, furbo e levantino, a volte borghese, a volte magliaro, le cui gesta hanno reso celebri i film della commedia all’italiana. Per dirla tutta si tratta di una particolare tipologia di persone che, come diceva il grande Indro Montanelli, eccellono nelle virtù servili. Sia come sia, si continua a ritenere e gradire lo Stato onnipotente ed onnipresente, ben sapendo di poterlo prima sfruttare e poi frodare, mandando alle ortiche valori, principii etici, diritti e libertà. D’altronde a chi potrebbe essere utile uno Stato minimo, ed efficiente, governato secondo principii di competizione, di merito, di rigore nei conti pubblici, di servizi puntuali e graditi alla comunità? Quale tornaconto personale possono garantire “apparati pubblici” occupati da una classe politica onesta e che governi potendo scegliere l’una o l’altra parte della chimera? Ed allora, salvo poi indignarsi, protestare ed appellarsi all’azione vicariante e manettara della magistratura, le cose continuano a scorrere come così sono fin dagli anni Sessanta del secolo scorso, allorquando figure di elevata qualità intellettiva e morale, come Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi, cedettero il passo ai governi di centrosinistra. Vide infatti la luce proprio in quel frangente l’idolatria per lo Stato padre e padrone, imprenditore ubiquitario ma sempre indebitato, monopolista di tutto quel che è possibile nazionalizzare. I colori politici dei partiti al governo? I valori liberali? Tutti finiti nel dimenticatoio di prassi consolidate e redditizie sotto il profilo elettorale se non di finanziamento occulto a partiti , movimenti e correnti interne dei medesimi !! Finanziamenti più o meno occulti, introdotti nella prassi da quel grande visionario e statalista che fu Enrico Mattei, patron di Eni, l’ente nazionale idrocarburi, che foraggiava chiunque ne assecondasse propositi e progetti, fino a quando l’areo privato sul quale viaggiava cadde al suolo, forse sabotato da uno dei competitori internazionali. E così, via via, arrivò il tempo in cui il ministero delle Partecipazioni statali acquistò di tutto: aziende decotte, oppure indebitate, per salvaguardare demagogicamente il personale che vi lavorava, accollandosi e rifondendo i debiti di gestione. Tanto, a pagarli ci pensava il buon Pantalone nel mentre gli imprenditori pensavano a privatizzare gli utili e pubblicizzare le perdite, cedendo allo Stato residuali carcasse di imprese ed i debiti aziendali ! Soldi pubblici, intendiamoci e quindi dei contribuenti e poco contava che servissero allo scopo di assicurare a politici e sindacati i necessari consensi. Accadde così per la chimica di Stato che prima vendette a Raul Gardini le azioni delle proprie aziende per poi ricomprarle. al doppio del prezzo, per impedire alla Montedison di tagliare i rami secchi, chiudendo le fabbriche poco produttive ed inutili al progetto imprenditoriale privato. Fu in quella circostanza che prese corpo la maxi tangente (300 miliardi di lire) versata ai partiti politici che diede vita al filone di Tangentopoli ed alla ignominiosa fine della Prima Repubblica. Oggi la crisi industriale è quella delle acciaierie, iniziata decenni fa con la chiusura del polo siderurgico di Bagnoli, con cifre record di soldi versati in decennali sussidi ai dipendenti in cassa integrazione. Una crisi che non risparmia l’Ilva di Terni e quella di Taranto. Proprio quest’ultima è già “pesata” non pochi miliardi di euro sulle tasche dei contribuenti a causa dei soldi spesi dallo Stato per rilevare lo stabilimento pugliese dalla famiglia Riva. Sempre, s’intende, per salvare i lavoratori. Attenzione: proprio i Riva, anni prima, avevano acquistato l’Ilva dallo Stato per poco meno di 700 milioni di lire , salvo poi dichiarare ricavi per 10 miliardi . Peccato che i nuovi proprietari privati non avessero mai provveduto alle opportune opere di bonifica degli impianti e del territorio. Alla fine lo stabilimento tarantino è stato ceduto agli indiani di ArcelorMittal, i quali però sono andati via a gambe levate innanzi ai mancati contributi statali ed ai costi che occorrevano per bonificare l’area industriale!! Una vicenda assurda, un concentrato di tutti i mali del nostro Paese e di tutte le ragioni per cui si fatica, in Italia, a fare impresa. Ora, accade che il ministro Adolfo Urso, statalista convinto, stia trattando ad oltranza con i sindacati, emanando decreti per compensare le spese derivanti dalle sentenze dei tribunali che impongono oneri elevati in materia di bonifica ambientale e tutela della salute delle comunità che vivono nelle adiacenze dell’impianto. Tra tanti vizi di fondo, ce n’è uno particolarmente evidente: in un mercato tanto competitivo nessun imprenditore accetterebbe mai, come nel caso dell’acciaio (dove è lo Stato a dettare legge), un piano industriale redatto da altri, in cui gli si dica cosa fare, come farlo, sotto quali vincoli e con quanti occupati. Per Ilva si andrà dunque incontro ad un’altra situazione capestro ed all’intervento “pubblico” che, more solito, pagherà tutti i costi. Alla fine della fiera l’acciaio italiano costerà allo Stato quanto l’oro e resterà in gran parte invenduto nei depositi.
*già parlamentare
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