Pur criticata per il suo conservatorismo, la “Balena Bianca” seppe garantire il governo a un paese attraversato da tensioni sociali, terrorismo e crisi economiche, con l’arte di bilanciare interessi contrapposti, evitando strappi. Del resto non è scritto da nessuna parte che la maggioranza dell’elettorato voglia un cambiamento, anzi, una parte cospicua dei cittadini punta a difendere la proprietà, la sicurezza personale e le libertà esistenti più che a domandare riforme
Il buon governo è il “non-governo”. Con questo motto paradossale si potrebbe sintetizzare la filosofia del governo Meloni che è stato oramai assunto come paradigma anche a Bruxelles.
Per moltissimi anni gli italiani sono stati rintronati, dalla propria classe di governo e dalle istituzioni europee, dalla retorica delle “riforme strutturali” ma oggi queste riforme sono sparite sia in Italia che in Europa.
Ciò perché il continuo appello a riforme importanti che poi si trasformavano in modeste micro-politiche ha eroso la credibilità della classe politica italiana ed europea e sia perché queste “piccole riforme”, tali per incapacità dei governi, più di veicolare l’idea di cambiamenti in grado di generare prosperità hanno dato la sensazione a gran parte degli elettori di richiedere per lo più sacrifici, di togliere più che di dare qualcosa ai singoli cittadini.
Questa percezione in Italia è particolarmente sviluppata dopo la sfilata di crisi economica, governi tecnici e antipolitica dell’ultimo decennio.
Meloni, arrivata al governo come prodotto finale di questi anni difficili, è ben consapevole della radioattività delle riforme strutturali per gran parte dell’elettorato tanto da aver rinunciato quasi del tutto persino a realizzare i progetti di cambiamento più ambiziosi promossi dal proprio partito, come la riforma del premierato, e scelto di non proporre nessuna “grande riforma” nel campo socio-economico. Qui emerge il valore dell’immobilismo, non come inerzia, ma come prudenza strategica.
D’altronde la lunga stagione al potere della Democrazia Cristiana offre un parallelo utile, soprattutto dagli anni Sessanta quando il ritmo delle riforme è calato rapidamente. La Dc, pur criticata per il suo conservatorismo, seppe garantire stabilità in un Paese attraversato da tensioni sociali, terrorismo e crisi economiche. Non fu un immobilismo sterile, ma un’arte di bilanciare interessi contrapposti, evitando strappi che avrebbero potuto destabilizzare il sistema.
Meloni, pur mantenendo la sua retorica di destra, sembra trarre ispirazione da questo approccio: invece di inseguire riforme divisive ricerca una gestione ordinata, come la continuità nell’utilizzo dei fondi Pnrr e la prudenza sul bilancio, dando al suo elettorato un messaggio di tranquillità e sicurezza più che di frenesia di cambiamento.
Non è scritto da nessuna parte che la maggioranza dell’elettorato voglia un cambiamento imposto dai governi, anzi una parte cospicua dei cittadini punta a difendere la proprietà, la sicurezza personale e le libertà esistenti più che a domandare riforme.
Negli ultimi anni in Europa i migliori risultati elettorali sono arrivati per i partiti che si opponevano alle riforme (green deal, redistribuzione fiscale, pensioni) più che per quelli che le proponevano.
Gli orientamenti dell’Ue
Tutto questo si vede anche negli orientamenti della seconda Commissione Von Der Leyen, dal cui lessico è sostanzialmente sparito il tema delle riforme strutturali e istituzionali. Dietro la narrazione riformista che ha prevalso in passato a Bruxelles si cela il rischio di un’Europa sempre più distante dai cittadini, intrappolata in un groviglio di regolamentazioni che soffocano l’economia e comprimono le libertà individuali.
Il Green Deal, partito con ambizioni nobili, si è trasformato in un colosso burocratico che impone costi insostenibili a imprese e famiglie, senza garantire competitività globale. La transizione digitale, con normative come il Digital Services Act, rischia di favorire i giganti tecnologici a scapito delle Pmi europee.
La riforma del Patto di Stabilità e le proposte di mutualizzazione del debito paiono più un tentativo velleitario di rafforzare il potere delle istituzioni di Bruxelles che una risposta ai bisogni degli Stati membri. Di qui il freno della seconda Von der Leyen anche per il mutare delle condizioni politiche e per la maggiore influenza di popolari e conservatori sulla Commissione.
Un’Europa più cauta, invece, potrebbe
L’ossessione per il cambiamento dipinge l’immobilismo come sinonimo di arretratezza. Eppure, come insegnano pensatori come Edmund Burke, il cambiamento deve essere graduale e radicato nella realtà sociale.
In conclusione, la teoria politica delle “non-riforme” di Meloni, e la stabilità elettorale che essa produce, mostra che sapere quando fermarsi conta più delle promesse agli occhi degli elettori. Se questo è vero in tal momento storico, i governanti non devo dimenticare però che fermarsi troppo, mentre il mondo cambia, rischia di essere controproducente nel lungo periodo.
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