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L’Italia Centrale non è solo bei paesaggi e buon cibo: è futuro


È un fatto che l’economia italiana è più sviluppata nei territori settentrionali. Addirittura nella pubblicistica si dice spesso che il Nord è la “locomotiva d’Italia”. E in effetti il 22-23% del PIL italiano è generato dalla sola Lombardia. Tuttavia si tratta di una metafora pericolosa, come vedremo tra poco. Perché mentre un treno regionale può permettersi di procedere grazie a una locomotiva che traina tutti i vagoni, a un paese da quasi 59 milioni di abitanti non basta una locomotiva per correre.

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L’Italia, del resto, non è la Cechia o l’Irlanda. Se già in Cechia e in Irlanda (dove il 26% e il 40% del PIL sono generati da Praga e Dublino) gli squilibri economici tra il centro e la periferia non giovano alla stabilità finanziaria e allo sviluppo economico, figuriamoci quali effetti (anche sociali e politici) sortiscono in paesi europei ben più vasti, complessi e popolosi come l’Italia, la Francia o il Regno Unito.

L’Île-de-France produce il 31% del PIL francese, la Greater London (soprannominata, non a caso, “the engine of the UK economy”) il 25% del PIL britannico; Parigi e Londra sono due metropoli globali, tra le pochissime in Europa capaci di rivaleggiare con New York, Singapore o Tokyo. Città alfa, per citare il GaWC. Tuttavia entrambi i paesi si dibattono in una profonda crisi da anni: ne sono una prova la caducità dei governi in entrambi i paesi, il mouvement des gilets jaunes in Francia, la Brexit nel Regno Unito.

Torniamo alla perniciosa metafora della locomotiva e dei vagoni. Il senso comune di certi “governatori” di regione, opinionisti e segretari di partito si ostina a paragonare l’Italia a un treno, con una locomotiva e dei vagoni. E si sostiene che potenziando la locomotiva anche gli altri vagoni andranno più veloci (una sorta di trickle-down geografico). A oggi questo non è successo, anzi i divari tra i territori settentrionali e il resto d’Italia si sono ampliati. Aree del Centro e del Mezzogiorno un tempo industrializzate e all’avanguardia hanno conosciuto una intensa deindustrializzazione; l’emigrazione giovanile è aumentata; l’offerta sanitaria e scolastica è peggiorata.

Ciò dimostra che la metafora della locomotiva e dei vagoni non funziona. Non soltanto anche il Nord non è un’unica grande locomotiva (il Piemonte non è la Lombardia, e Rovigo non è Vicenza), ma il potenziamento della locomotiva non ha accelerato la corsa anche degli altri vagoni. Perché? I motivi sono svariati, e fior di storici dell’economia, economisti e sociologi da tempo se ne occupano. A mio modestissimo parere un motivo (di certo non il primario, ma uno di essi) ha a che fare con la mentalità e le aspettative che la metafora della locomotiva e dei vagoni hanno promosso. Il punto è che certi vagoni in realtà sono già delle locomotive, almeno un po’, e che alcuni vagoni potrebbero diventarlo. Ovviamente un treno fatto soltanto di locomotive ha poco senso; appunto per questo la metafora è sbagliata.

La mentalità e le aspettative in economia contano, specie tra i produttori. Fare impresa, specie quando si parte da zero o quasi, vuol dire assumersi dei rischi, economici ma anche psicologici, a fortiori in un paese dove lo stigma sociale per chi fallisce è forte. I rischi economici e psicologici aumentano ulteriormente quando anziché un bar o una norcineria si vuole aprire una web agency, un’azienda agricola bio digitalizzata, una startup innovativa nel biotech o nell’IA.

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Distinguendo tra locomotiva e vagoni, e sostenendo che si dovevano usare le risorse (scarse) soprattutto per potenziare la locomotiva, ai passeggeri dei vagoni si è arrecato, e si continua ad arrecare, un danno psicologico, oltre che economico.

Quando, a partire dagli anni ’90, a causa delle pressioni di attori economico-mediatici e del nordismo politico, la classe dirigente nazionale ha scioccamente abbracciato una visione di sviluppo incentrata soltanto sui territori settentrionali, uno degli effetti di tale cambio di paradigma è stato quello, negli altri territori, di deteriorare il clima psicologico e le aspettative a lungo termine di imprenditori e amministratori; promuovere una mentalità di rassegnazione e fatalismo; accrescere l’avversione al rischio della popolazione; favorire l’emigrazione di giovani talenti e lavoratori specializzati, pronti a emigrare a Milano, a Londra, a Berlino o in Australia «perché tanto qui [in questo paese, in questa città, in questa regione] non c’è niente».

Il Mezzogiorno è stata la macroarea più colpita, ma pure l’Italia centrale ne è stata molto danneggiata. Ovviamente non penso che Ancona sia una global city del calibro di Sidney, o che a Terni ci siano le stesse opportunità che a Zurigo, o che Roma sia Parigi. Ma mi sono reso conto, viaggiando negli ultimi anni attraverso tutta l’Italia centrale, che quest’area non è un insieme di vagoni da trainare. Piuttosto che un treno, l’Italia è un aereo quadrimotore, e se uno dei motori (il più potente) è il Nord, un altro è il Centro.

Tre esempi. Prima di tutto, qual è la seconda regione italiana per PIL? Non sono in molti a saperlo, ma è il Lazio, che sopravanza il Veneto e l’Emilia-Romagna di una quarantina di miliardi (quanto il PIL dell’Abruzzo). La vulgata dirà che se il PIL del Lazio è così cospicuo è merito del fatto che nella regione si trova Roma, capitale d’Italia, dove vive (e consuma) un esercito di politici, funzionari, ambasciatori e così via; senza dubbio Roma trae un contributo economico (anticiclico) di rilievo da parlamentari, PA e dignitari stranieri, tuttavia l’essere capitale genera oneri oltre che onori, costi oltre che benefici. In ogni caso l’economia romana non si fonda certo soltanto sulle 4 P (papa, politici, palazzinari e pizza alla romana) che alcuni politici e media propalano; settori come il manifatturiero hi-tech, il lusso, il cinema e l’editoria sono ben radicati nella capitale.

E ci sono segnali di una rinnovata vitalità dell’economia romana. Nell’area metropolitana di Roma operavano alla fine dello scorso anno oltre 400mila imprese, con un tasso di crescita dell’1,8% rispetto al 2023 (quasi il triplo della media italiana).

Il tessuto produttivo laziale è molto diversificato, con una base manifatturiera di rilievo. L’aerospaziale ad esempio dà lavoro a oltre 23mila addetti, grazie ad aziende di peso europeo come Alenia Thales Space Italia, ma anche una galassia di PMI altamente specializzate. Un altro settore è la difesa: a Roma per esempio hanno sede aziende come ELT Group (nata nella capitale alla prima metà degli anni ’50), e siti produttivi come quello della Rheinmetall Italia. Un altro pilastro dell’economia laziale è il farmaceutico; la regione è leader nell’export, vanta aziende del calibro del Gruppo Angelini e ha una forte capacità attrattiva (la multinazionale danese Novo Nordisk, per esempio, investirà nello stabilimento ex Catalent di Anagni oltre due miliardi di euro, dopo averlo comprato nel 2024).

L’ecosistema dell’innovazione del Lazio è uno dei più forti d’Italia, in primis grazie alla presenza di università (almeno una dozzina, incluse le sei statali), laboratori e centri di ricerca; essa attira e trattiene un vasto pool di giovani talenti, ricercatori e tecnici, favorendo la genesi di startup innovative e spinoff universitari di qualità. Non è una coincidenza se il Lazio è la seconda regione per numero di startup innovative nel paese dopo la Lombardia (1.659 alla fine del 2023, contro 3.710). Ma allora perché nel discorso pubblico italiano il Lazio non è mai stato incluso tra le regioni “locomotiva” d’Italia? Lo avrebbe meritato quanto e più varie regioni del Nord.

È a mio parere poi degno di nota che l’Italia centrale (Lazio, Toscana, Marche e Umbria) sia dopo il nordovest (Lombardia, Piemonte, Liguria, Val d’Aosta) la seconda macroregione per numero di startup innovative: 2.767 contro 4.699.

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Ed ecco un secondo esempio: le Marche. La regione adriatica, di appena un milione e mezzo di abitanti, è classificata come un Moderate Innovator + nel Regional Innovation Scoreboard, estensione regionale dell’European innovation scoreboard della Commissione Europea; regioni quali il Lazio e la Lombardia sono al suo stesso livello, per intenderci. Le Marche sono terra di università (ben quattro, ottime) e – da qualche tempo – anche di startup innovative (296 nell’ultimo trimestre del 2023). È notizia recentissima che Terna aprirà ad Ascoli Piceno un Terna Innovation Zone dopo quelli di San Francisco e di Tunisi.

La deindustrializzazione ha colpito duramente la regione (ne è un esempio la chiusura della storica cartiera di Fabriano, per la popolazione locale un vero trauma) ma resistono realtà manifatturiere di peso continentale (e globale) come Biesse, Ariston, Elica, Faber, Scavolini, Simonelli, con livelli di produttività e propensione a innovare superiori rispetto alla media. Una peculiarità dell’economia marchigiana è che, come ha sottolineato un report della Banca d’Italia, «le imprese ad alta crescita in regione [sono] più concentrate nella manifattura e meno nelle costruzioni e nel commercio». Del resto nel 2022 quasi il 27% del valore aggiunto è stato generato, nelle Marche, dall’industria, inclusa quella di trasformazione agroalimentare; nel settore spiccano aziende celebri in tutta Italia come Fileni, Sabelli, Entroterra (quella della Pasta di Camerino), e chi conosce il settore sa quanto know-how sia necessario per produrre una mozzarella o della pasta all’uovo bio di qualità.

I collegamenti sono uno dei punti deboli delle Marche. L’aeroporto di Ancona è in forte crescita, ma sono da potenziare le infrastrutture di terra, a partire da quelle ferroviarie; per una regione di confine (sin dal suo nome) si tratta di un aspetto chiave. Maggiori (e soprattutto più veloci) collegamenti su ferro con Roma, Perugia e Milano potrebbero rafforzare molto la competitività della regione, specie in una logica di knowledge economy, in cui i talenti devono circolare con più agio e celerità delle merci, e avere la possibilità di combinare telelavoro e pendolarismo estremo.

Ovviamente le Marche non hanno (né possono avere) lo stesso peso economico del Lazio e dell’Emilia-Romagna, ma hanno le carte in regola per diventare un hub di innovazione paragonabile al Trentino, e – torno alla metafora dell’aereo – potenziare il motore dell’Italia centrale. Sarebbe però cruciale investire di più in R&D (possibilmente con un focus su settori caratterizzanti quali le tecnologie per la casa, l’economia del mare, l’agrifood) e sostenere in modo sistematico il dialogo tra mondo delle startup, aziende manifatturiere e finanza locale.

Le Marche vantano già diversi vari di ricerca di rilievo, ma potrebbe essere utile creare (con le necessarie risorse) un equivalente marchigiano della Fondazione Bruno Kessler, che in Trentino – in sinergia con l’Università degli Studi di Trento e altri attori pubblici e privati – è stato un cruciale fattore di modernizzazione del territorio.

Iniziative di questo tipo, combinate con un miglioramento dei collegamenti, potrebbero contribuire a frenare la diaspora dei giovani marchigiani, che si formano negli atenei locali e poi emigrano a Roma, Bologna, Milano, Londra e così via, e anzi potrebbero rendere attrattivi territori che hanno molte carte in regola per diventare magneti per nomadi digitali: una buona qualità della vita, borghi splendidi come Senigallia, il mare e le colline, la (relativa) prossimità a centri di peso europeo come Roma e Bologna.

Ultimo esempio, l’Umbria. La regione ha meno di un milione di abitanti, ed è conosciuta in Italia soprattutto per la sua ricchezza culturale e i suoi meravigliosi paesaggi. E in effetti chi visita la Basilica di San Francesco ad Assisi o la piana di Castelluccio non può che rimanere abbagliato da tutta quella bellezza. Ma l’Umbria non è solo una meta per credenti, esteti e amanti del buon cibo e della storia; potrebbe diventare un grande laboratorio per il manifatturiero sostenibile di domani, sfruttando i suoi asset. Quelli sociali, prima di tutto: la coesione e la solidarietà di comunità dove ci si tende a fidare l’uno dell’altro, e dove c’è un maggior rispetto per la donna che in altre parti d’Italia (l’Umbria ha avuto quattro presidenti di regione donna di seguito). E poi i due atenei: l’Università di Perugia, polo scientifico e tecnologico di prim’ordine, e la celebre Università per Stranieri di Perugia, da potenziare come magnete per attirare creativi e talenti tecnologici extraeuropei.

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L’Umbria gode di una posizione geografica unica, trovandosi nel cuore della penisola, e di un’effervescenza imprenditoriale degna di nota: le startup innovative umbre erano 213 a fine 2023, e la provincia di Perugia brilla per capacità di generare PMI innovative. Soprattutto, il manifatturiero umbro è massiccio, in primis in virtù di grandi aziende come Acciai Speciali Terni (controllata dal gruppo italiano Arvedi). Solo nell’industria auto operano in Umbria una settantina di aziende di componentistica.

Proprio settori molto radicati in terra umbra come la siderurgia e l’auto hanno urgente necessità di evolvere, diventando più sostenibili ed efficienti. L’Umbria potrebbe diventare un testbed a cielo aperto per il manifatturiero di domani: dall’acciaio a basse emissioni di carbonio all’auto elettrica, dalla difesa dei boschi attraverso IA e sensoristica ai droni e alle infrastrutture smart. Occorre però investire in R&D e in TT; favorire la cooperazione tra aziende, startup, le università e i centri di ricerca regionali; rafforzare i collegamenti (prima di tutto ferroviari) con Milano, Bologna e con le tre regioni confinanti; stimolare gli investimenti privati in business ad alta intensità di innovazione; capire che la bassa densità abitativa e le dimensioni contenute del territorio possono costituire un inopinato vantaggio quando c’è da testare una tecnologia.

Come accade nelle Marche, anche l’Umbria vede molti suoi giovani emigrare verso il nord, Roma e l’estero, e l’invecchiamento della popolazione è un dato di fatto (l’età media è pari a 48 anni, sopra la media nazionale). Proprio per contrastare tali trend urge trasformare l’industria e la ricerca umbra in leve per la modernizzazione del territorio, abbandonando il mito dell’Umbria bucolica, dove “il tempo si è fermato”; non perché alcuni borghi umbri non possano sconfiggere il tempo con la loro bellezza e il loro equilibrio, ma perché la maggior parte dei giovani (e delle imprese) cerca, e ha bisogno, di altro.

 

PS cambiare mentalità, e immaginare che un giorno aziende all’avanguardia come SpaceX o Helsing aprano un laboratorio in Italia centrale non è fantasticare: è provare a costruire un futuro diverso, e il futuro rimane invisibile e ipotetico sinché non si concretizza, e diventa presente.

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