L’incertezza frena esportazioni e investimenti. A rischio la tenuta del sistema industriale italiano. Per il direttore del CSC Confindustria, Alessandro Fontana, «probabile una perdita di export verso gli Usa pari a circa 12 miliardi, di cui quasi 5 potrebbero essere recuperati penetrando altri mercati»
Direttore, i dazi stanno tornando a essere protagonisti delle guerre commerciali internazionali. Ma non sono uno strumento di potere oramai superato?
Sì, lo sono, ma in realtà l’utilizzo da parte dell’amministrazione americana è molto particolare questa volta perché, di fatto, diventa più che altro uno strumento di pressione politica.
L’obiettivo sotteso non è solo di natura commerciale; pensiamo al Messico, ad esempio: il presidente americano Trump aveva minacciato di imporre dazi del 25% per frenare l’immigrazione illegale e il traffico di droga.
Oppure, all’idea dell’Ue di acquistare armi americane in cambio dell’eliminazione dei dazi sulle proprie esportazioni verso gli Stati Uniti. Insomma, i dazi congegnati così vanno oltre lo scopo commerciale; appare infatti chiaro che siano voluti per spingere alcuni Paesi a collaborare con le politiche americane.
Vedremo cosa succederà nei mesi a venire (ad oggi Trump ha annunciato in una lettera tariffe dall’1 agosto, al 30%, per la UE, ndr).
Il CSC da lei diretto ha stimato di recente una crescita dimezzata nel 2025 (+0,4%) per il nostro Paese. Cosa potrebbe accadere se, i dazi imposti dagli Usa diventeranno effettivi anche per l’Europa? Quali gli effetti su fiducia, consumi, investimenti, mercati finanziari e politiche economiche in Italia?
In Italia, l’impatto dei dazi sull’economia, in particolare sul PIL, è stimato in una diminuzione dello 0,3% nel biennio 2025-2026. Questa riduzione è principalmente dovuta al calo delle esportazioni di beni (-1,2%), causato dall’aumento dei dazi, e dall’incertezza che ne deriva e che sembra tenere ostaggio i mercati globali che ha effetti negativi principalmente sugli investimenti.
Tra l’altro gli Stati Uniti erano un mercato in netta crescita per le nostre imprese, molte delle quali già pronte a rafforzare le produzioni proprio verso quel mercato.
Ovviamente, l’ipotesi ventilata di dazi frena questo processo di espansione, diciamo, riducendo di molto gli investimenti, fino ad arrivare a un calo dello 0,3% accumulato in due anni sul pil dovuto alla caduta dell’export.
Quali sono i settori più a rischio nel nostro Paese?
Il comparto più colpito sembra essere quello dell’automotive, seguito da alimentare, moda e abbigliamento, nonché quello della produzione di macchinari.
A pagarne il prezzo sarà anche la stessa economia statunitense?
Sì, e il conto sarà ancor più salato tenuto conto che gli Stati Uniti sono il primo paese importatore al mondo, con il 13% di tutto l’import globale. La quota di import americano equivale a circa il 46% di quello che producono, vale a dire che 1 bene su 3 di quelli domandati negli Stati Uniti viene dall’estero.
Poiché i prodotti per effetto dei dazi saranno importati a un prezzo più elevato, inevitabile sarà un incremento dell’inflazione. Facendo una rapida proiezione – ponendo che i dazi si attestino sul 10% – va tenuta nella giusta considerazione anche la svalutazione del dollaro, per cui l’importatore americano acquisterà verosimilmente con una maggiorazione di oltre il 20% circa in più in termini di prezzo (se esportatori e importatori non riducono i loro margini; cosa che faranno sicuramente ma altrettanto sicuramente non riusciranno ad evitare un aumento dei prezzi).
Inevitabile, pertanto, sia una riduzione di domanda, sia un significativo impatto sul reddito delle famiglie americane al punto che gran parte degli osservatori ritengono molto elevata la possibilità di recessione negli Stati Uniti, probabilità che, a cascata, produrrebbe effetti nefasti sul resto dell’economia mondiale come già successo in passato.
Una “nuova”, ancora poco battuta traiettoria di crescita per l’Europa potrebbe essere aprirsi agli scambi con l’India, potenza emergente che sta ridisegnando gli equilibri dell’economia globale?
Sarebbe per noi un ottimo mercato, anche perché il nostro Paese ha da sempre dimostrato che, laddove si ampliano i rapporti commerciali, c’è sempre da guadagnare perché siamo, in termini di export, molto competitivi e dove riusciamo ad abbattere le barriere, otteniamo risultati soddisfacenti. Più di ogni altra azione, però, sarebbe importante approvare senza più attendere l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Paesi del Mercosur, il mercato unico del Sud America formato da Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay. Sarebbe un passo di rilevanza strategica per l’industria nazionale ed europea.
L’intesa costituirebbe un mercato integrato di oltre 750 milioni di consumatori, pari a quasi un decimo della popolazione mondiale, e le cui economie rappresentano il 20% del Pil globale e il 25% degli scambi mondiali. Inoltre, il nostro Paese sarebbe il maggior beneficiario di questo accordo, tenuto conto che le esportazioni di beni totali di beni e servizi dell’Unione Europea aumenterebbero infatti di circa 25 miliardi di dollari e l’Italia ne avrebbe una quota del 14% maggiore rispetto agli altri Paesi europei (3,5 miliardi di dollari). Accrescere accordi commerciali, offrendo alle nostre imprese mercati di sbocco ad alto potenziale di crescita, è per noi la via maestra per compensare l’effetto dei dazi
Altro problema nazionale – così come lo definisce il presidente Orsini – è il costo dell’energia che pure pesa sul rinvio di decisioni di investimento e consumo. Qual è la fotografia attuale per le nostre imprese in particolare e quali le proposte del nostro Sistema?
La questione è nota: paghiamo l’energia fino a un 30-35% in più rispetto ai nostri competitor tedeschi, per fare un esempio, e rispetto a Paesi come la Spagna o la Francia, il divario si fa anche più ampio. Nel lungo periodo, l’unica soluzione che consideriamo utile è il ricorso al nucleare di nuova generazione tra le opzioni energetiche possibili, specie per le produzioni ad alta intensità energetica come l’acciaio, i prodotti in metallo, la ceramica, il vetro, il cemento. Difficilmente per queste lavorazioni la sola produzione rinnovabile sarà sufficiente. Non si tratta né di una questione ideologica, né di una presa di posizione politica, ma di una scelta strategica per garantire la sicurezza energetica e la competitività del Paese.
Nel breve, invece, andrebbe reso concreto il disaccoppiamento del prezzo dell’energia elettrica da quello gas per abbassare i costi, così come andrebbe incentivata l’adesione all’Energy Release, il meccanismo del Gestore dei Servizi Energetici che permette alle imprese energivore di accedere a energia elettrica a un prezzo calmierato, in cambio dell’impegno a realizzare impianti di energia rinnovabile. Continueremo a lavorare per promuovere una ampia partecipazione delle aziende a questa misura che può permettere da subito una stabilizzazione del prezzo dell’energia. Si tratta di un’ottima soluzione nel transitorio fino ad arrivare all’indipendenza energetica che resta l’obiettivo cui tendere.
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