- Mentre i negoziati UE-USA sono ancora in corso, Donald Trump non fa sconti all’Europa e minaccia dazi al 30% a partire dal 1° agosto. Lo fa con una lettera alla Presidente della Commissione europea del tutto irrituale per forma e contenuto (che si aggiunge a quelle inviate ad altri paesi). Avverte anche che in caso di ritorsione da parte dell’UE “l’ammontare (del dazio europeo ndr) sarà aggiunto al 30%”. In pratica, se l’UErispondesse con dazi di pari entità si potrebbe arrivare a un incredibile dazio Usa del 60%.
- La minaccia di Trump si inserisce nella corsa ai dazi che lui stesso ha inaugurato con il suo secondo mandato. A partire da aprile, i dazi medi sulle importazioni da tutto il mondo negli Usa sono passati dal 2,3% all’8,8%. Per l’UE questo si è già tradotto in un aumento medio dall’1,3% al 6,7%. Tra i paesi UE, l’Italia è uno dei più penalizzati, con un dazio medio già salito all’8%, contro l’11% della Germania e il 6,4% della Francia.
- L’UE si interroga sulle tattiche negoziali da adottare nel rush finale verso il 1° agosto. In gioco ci sono decine di miliardi di euro di crescita economica. Un dazio al 10%, come quello di oggi, si traduce in un rallentamento della crescita dello 0,1% per l’UE. Rallentamento che salirebbe a circa 0,4% nel caso di dazi al 30%.
- Il colpo per le imprese europee e italiane è inoltre aggravato dal deprezzamento del dollaro sull’euro (-13% dall’inizio del secondo mandato di Trump). Ciò rende le esportazioni europee ancora più care nel mercato Usa e agisce come un “dazio implicito” che già oggi implica una perdita cumulata fino al 21% per gli esportatori italiani rispetto al periodo pre-Trump.
- Ma i dazi colpiscono anche chi li impone. Secondo la FED quest’anno l’economia americana crescerà dell‘1,4% (rispetto al 2,7% previsto a gennaio dal Fondo Monetario Internazionale). Inutile ricercare una logica strettamente economico-commerciale dietro ai dazi “reciproci”, Trump continua a parlare alla base elettorale MAGA e cerca nuove entrare per un deficit federale che lui stesso sta aggravando. Non sarà un compito facile: anche ipotizzando un aumento delle entrate da dazi da 80 a 290 miliardi di dollari l’anno, questo non riuscirebbe nemmeno a coprire l’aumento del deficit USA causato dai nuovi piani di spesa (One Big Beautiful Bill Act – OBBBA): da 1.800 a circa 2.100 miliardi di dollari solo nel primo anno (7% del PIL).
Mentre incombe la minaccia del 30%, è bene ricordare il percorso seguito da Trump negli ultimi mesi. Dopo il “Liberation Day” proclamato lo scorso aprile, il dazio medio effettivo (ovvero pesato per il commercio) imposto dagli Stati Uniti è quasi quadruplicato, dal 2,3% del pre-Trump al 8,8%. E se è vero che gli effetti peggiori sono stati avvertiti da Pechino, il cui dazio medio è cresciuto dall’11% al 48%, anche gli “alleati” europei non sono stati risparmiati: una impennata dall’1,3% al 6,7%.
E l’Italia? Sembrerebbe logico attendersi che il dazio medio americano che grava sull’Italia sia uguale a quello di tutto il resto d’Europa, dal momento che siamo in una unione doganale e i dazi sono uguali per tutti. Ma i dazi americani non sono identici in tutti i settori economici. Infatti, mentre Trump ad aprile ha portato il dazio minimo verso l’UE al 20%, per poi ridurlo al 10% (inaugurando un periodo di “tregua” che potrebbe concludersi il 1° agosto), su alcuni prodotti i dazi sono più alti (per esempio quelli sulle importazioni di alluminio e acciaio sono giunti al 50%, mentre quelli sugli autoveicoli al 25%) o più bassi (come nel caso delle esenzioni finora concesse al settore farmaceutico).
Tenendo dunque conto anche di quanto pesano questi prodotti nell’export verso gli Usa, l’Italia ne esce un po’ più penalizzata rispetto alla media UE. Se già prima dell’arrivo di Trump il dazio medio applicato al nostro paese gravitava intorno al 2,1% (contro l’1,3% medio dell’UE), a maggio era ormai arrivato all’8%. Peggio di noi fa la Germania (11%), mentre la Francia si ferma al 6,4%.
Le negoziazioni tra Unione europea e Stati Uniti non sembravano però procedere secondo i piani del Presidente Trump, che lo scorso maggio aveva già minacciato di applicare dazi fino al 50% sui beni europei, salvo poi tornare sui suoi passi e indicare la “tregua” fino al 9 luglio (ora interrotta con la minaccia dei dazi al 30% dal 1° agosto). Uno scenario che metterebbe a rischio i paesi il cui export verso gli Stati Uniti pesa di più sulle rispettive economie, come Germania e Italia.
Naturale dunque attendersi maggiori impatti sull’economia per Berlino e Roma. In questo scenario di dazi al 30%, infatti, si può stimare (al momento in modo inevitabilmente approssimativo) che il PIL tedesco perderebbe lo 0,5% rispetto a uno scenario senza dazi, quello italiano intorno allo 0,36%, mentre quello francese “solo” allo 0,25%. Se poi l’UE rispondesse ai dazi di Trump con propri dazi equivalenti, si potrebbe addirittura arrivare a un dazio USA nominale del 60% con conseguenze ancora più drammatiche per le economie europee.
Ma i problemi per gli esportatori europei non finiscono con i dazi. A rendere ancora più cari i prodotti UE nel mercato Usa ci si mette anche l’andamento del tasso di cambio euro-dollaro. Il dollaro si è infatti notevolmente deprezzato rispetto all’euro: dall’entrata in carica di Trump (20 gennaio) a oggi ha perso il 13% del suo valore contro l’euro.
Gli osservatori spiegano questo calo con una notevole perdita di credibilità della valuta americana, dovuta proprio all’incertezza generata dai dazi e all’aumento delle spese federali legate al “One Big Beautiful Bill Act”. Che gli USA rappresentino sempre meno il “safe heaven” (in cui ad esempio rifugiarsi in caso di crisi) è testimoniato non solo dalla perdita della tripla A da parte delle tre principali agenzie di rating, ma anche dall’aumento degli interessi pagati sui titoli del Tesoro (Treasuries) americano.
A prescindere dalle ragioni dietro il deprezzamento del dollaro, rimane il fatto che per chi esporta verso gli Stati Uniti questo rappresenta a un “dazio aggiuntivo”. In sostanza, il “colpo medio” subito dagli esportatori italiani, in questo momento, non è quantificabile nel solo 8% del dazio medio (ponderato per il commercio), ma in un complessivo 21% che peggiorerebbe ulteriormente se entro il 1° agosto non si trovasse un accordo. Mentre per alcuni prodotti (come quelli di lusso) buona parte di questo potrebbe essere riversata sui consumatori americani (disposti comunque a pagare di più), per altri (soprattutto quelli di largo consumo che trovano maggiore concorrenza nel mercato Usa) si tradurrebbero in minori margini o addirittura in un abbandono del mercato americano.
Dietro alle convinzioni ideologiche di Trump – non basate sulla teoria economica (“tutti i deficit commerciali fanno male”) – la strategia della guerra commerciale nasconde, neppure tanto velatamente, un secondo obiettivo: quello di usare le entrate dai dazi per ripianare un altro deficit americano, quello del bilancio federale.
Imponendo dazi molto alti, in effetti, Trump sta già ottenendo entrate molto più elevate nelle casse federali: se per un anno andasse come lo scorso maggio, le entrate crescerebbero da meno di 80 a quasi 290 miliardi di dollari e, in teoria, anche ben oltre, se i dazi con l’UE (e gli altri paesi del mondo) si assestassero sui livelli delle lettere inviate da Trump nei giorni scorsi. Ma appunto in teoria: con l’aumento delle aliquote sui dazi, le esportazioni verso gli Usa diminuiranno e, di conseguenza, anche gli introiti per le casse americane.
In ogni caso, si tratterebbe di un introito del tutto insufficiente. E questo anche alla luce del fatto che il Congresso ha appena approvato lo One Big Beautiful Bill Act (OBBBA) proposto da Trump, che nel primo anno dall’entrata in vigore potrebbe far lievitare il deficit americano, già alto (1.800 miliardi di dollari, il 6,3% del PIL), di altri 500 miliardi. Gli USA si avvierebbero quindi verso un rapporto deficit/Pil del 7% in un paese con un debito già oltre il 120%.
Ma a prescindere dalle traversie sul versante americano, cosa aspettarsi da quello europeo? Proprio oggi si riunisce il Consiglio UE dei ministri del commercio per discutere sulla strategia negoziale da adottare nelle prossime due settimane per scongiurare i dazi al 30%. In attesa di ulteriori informazioni al riguardo, è comunque auspicabile che i paesi dell’UE sostengano lo sforzo comune della Commissione per una negoziazione ancora più serrata in vista del 1° agosto (a meno di ulteriori ‘tregue’).
Come osservano Moreno Bertoldi e Marco Buti in questa analisi per ISPI, in ogni caso nessun accordo è meglio di un cattivo accordo. Se non ci fosse un accordo i mercati reagirebbero negativamente facendo così pressione su ambo le parti per ulteriori negoziazioni. Un cattivo accordo (per l’UE) difficilmente sarebbe invece rinegoziato da Trump e rimarrebbe a lungo così. Ovviamente affinché questa linea d’azione sia percorribile, l’UE deve essere credibile nella sua minaccia di ritorsione. Per esserlo la Commissione sta lavorando a una lista di prodotti USA (per un valore fino a 100 miliardi di dollari) su cui applicare i propri dazi. A ciò si aggiunge lo “strumento anti-coercizione” di cui l’UE si è già dotata (era paradossalmente pensato contro la Cina), che può colpire anche gli investimenti USA e i servizi. Su questi ultimi in particolare è l’UE ad avere un deficit verso gli Usa di circa 100 miliardi all’anno. Ma Trump sembra sempre dimenticarsene, focalizzandosi solo sul surplus dell’UE sui prodotti (oltre 200 miliardi).
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