Augusto Ciarrocchi, presidente di Confindustria Ceramica. Cosa significa per un settore che esporta all’estero l’82% dei suoi prodotti navigare all’improvviso in un mondo segnato dai dazi?
«È come trovarsi in uno tsunami. La ceramica paga già tariffe pari al 9% sull’export Usa. Un ulteriore 10% era già considerato un aggravio pesante. Ma ipotizzando il 30% di dazi sui prodotti esportati negli Usa significa aggravare la situazione in maniera irreparabile. E ricordo che la ceramica italiana rappresenta quella più penalizzata considerato l’elevato valore dei prodotti. Se a questo si aggiunge il peso della svalutazione del dollaro del 12-13%, il rischio è evidente: vuol dire essere tagliati fuori dal mercato americano».
Che peso ha sulle vostre vendite?
«Rappresenta il nostro primo mercato. Vale circa 700 milioni, in media il 14% del nostro export. Ma ci sono aziende per le quali il mercato Usa vale anche il 30%. Non abbiamo una stima precisa, ma pensiamo che possa essere più che dimezzato il flusso di vendite verso gli Stati Uniti con dazi al 30%. Parliamo di livelli insostenibili. Siamo sbigottiti. Senza contare gli effetti da mettere in conto sulla maggiore concorrenza anche da India e Cina».
L’effetto Trump innescherà anche l’invasione in Europa da parte di prodotti a bassissimo costo?
«Questo dobbiamo metterlo in conto anche con dazi al 10%. Anche India e Cina, grandi produttori di piastrelle, dovranno dirottare parte delle loro vendite all’estero. E lo faranno indisturbate a danno dell’Europa».
A prescindere dal punto di caduta che avrà la trattativa, il mondo delle imprese ha già chiesto all’Ue delle compensazioni. Da cosa partire?
«Siamo tartassati dal Green Deal, il primo intervento Ue per alleviare le imprese già appesantite dai costi energetici, dovrebbe essere la revisione del meccanismo Ets sui consumi energetici, un onere aggiuntivo per le nostre imprese che vale 120 milioni all’anno. Rappresenta una tassa aggiuntiva del 15% sul costo dell’energia. Impossibile sostenere questo doppio peso. Una revisione sarebbe un sollievo. Altrimenti ci condanniamo alla desertificazione dell’industria europea. Bisogna prendere delle contromisure».
Il settore è in grado di limitare i danni delocalizzando la produzione in Usa. Una difesa ma anche una sconfitta per il nostro tessuto produttivo.
«Alcune aziende con le spalle larghe hanno già in parte imboccato questa strada negli anni scorsi. Ma attenzione, parliamo di un settore presidiato da tante piccole e medie imprese che non hanno le forze per aprire un fabbrica in Usa. L’alternativa può essere solo il ridimensionamento o la chiusura». Stesso discorso per chi produce tecnologie innovative legate alla produzione di piastrelle? «L’effetto a catena sarebbe pesante».
Tra le strategie possibili per rispondere all’affondo di Trump c’è la diversificazione geografica. Su questo fronte che spazi ci sono?
«Copriamo già tutte le aree geografiche, non sarebbe facile capire dove piazzare i prodotti per compensare la chiusura del mercato Usa. Gli spazi non sono tanti immaginando anche il già citato effetto a da Cina e India».
L’incertezza è un altro costo nascosto. Comunque vada a finire, a fine mese dovrebbe essere chiaro l’esito. Almeno potrete tarare investimenti e strategie.
«Parte dei nostri investimenti è già congelata dalle incognite su Green Deal. Un altro colpo da dazi irragionevole sarebbe una mazzata».
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