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I motivi dei dazi di Trump contro l’Ue sono poco solidi


Il ragionamento dietro a questa misura sembra sensato, ma si basa su un principio sbagliato: il fatto che le differenze commerciali tra Stati Uniti ed Europa sarebbero “ingiuste”, come ha fatto intendere Trump nella sua lettera. L’Unione europea e gli Stati Uniti sono due aree economiche simili: i costi delle materie prime e dell’energia sono infatti paragonabili, sebbene ci siano alcune differenze nella tutela dei lavoratori. L’indice di protezione dell’occupazione elaborato dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), che sintetizza il livello di tutela in un Paese, è infatti più alto nei Paesi europei. La differenza potrebbe quindi dipendere da un diverso livello di produttività in determinati settori: gli statunitensi potrebbero decidere di acquistare dagli europei alcuni beni semplicemente perché sono di qualità migliore. L’esempio più semplice sono le esportazioni del lusso e dell’agroalimentare.

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Secondo alcuni economisti, un fattore significativo dietro al disavanzo commerciale degli Stati Uniti verso l’Ue è il tasso di cambio. Nel 1987 gli economisti Paul Krugman e Richard Baldwin avevano ipotizzato che la persistenza del disavanzo degli Stati Uniti fosse legata al fatto che il dollaro è tendenzialmente una moneta molto forte, con un potere d’acquisto che tende a essere favorito con il tasso di cambio. In altre parole, questo significa che di solito per un cittadino statunitense acquistare beni dall’estero è conveniente perché alla sua moneta viene riconosciuto un valore superiore, per la sua stabilità, per il suo valore politico e per la sua semplicità nell’essere usata nelle transazioni. È noto, per esempio, che avere a disposizione dei dollari in contanti aiuta a fare scambi commerciali in quasi ogni parte del mondo ci si trovi. Una cosa che non si potrebbe dire, per esempio, del baht thailandese.

A questo, Krugman e Baldwin hanno aggiunto tra i motivi del disavanzo una crescita della domanda di prodotti da parte dei consumatori statunitensi più rapida rispetto al resto del mondo a partire dal 1980. In pratica, negli Stati Uniti i cittadini sarebbero più “consumisti” e questo costringerebbe il Paese a importare più beni dall’estero. Insomma, secondo Krugman e Baldwin, non sono i Paesi europei a fare concorrenza sleale agli Stati Uniti, ma sarebbero le politiche e le abitudini degli statunitensi stessi ad aver contribuito ad aumentare il disavanzo. 

Il disavanzo commerciale è anche indicativo del fatto che gli Stati Uniti riescono a generare più ricchezza da investire di quanta non ne riescano a spendere sul loro territorio. Il disavanzo commerciale può infatti anche essere visto come la differenza tra il risparmio e l’investimento. Se si accumulano grandi ricchezze (risparmi) e non si sa più come spenderle nel proprio Paese, si finisce per comprare beni e servizi stranieri, oltre a fare appunto investimenti all’estero. In questo senso, i Paesi stranieri «si approfittano» degli Stati Uniti, come sostiene Trump non perché facciano nulla di sbagliato, ma perché beneficiano di risorse investite da quel Paese. Per come viene presentata la cosa, però, sembrerebbe che gli Stati Uniti stiano facendo un favore a queste economie, quando in realtà stanno semplicemente acquistando prodotti o servizi in cambio di denaro. 

In più, questa condizione di Paese che ha sempre un credito da incassare porta molti vantaggi dal punto di vista politico agli Stati Uniti. Ciò è dimostrato proprio dalla risonanza delle decisioni di Trump sui dazi. Essendo gli Stati Uniti il principale mercato di esportazioni per molti Paesi del mondo – per l’Italia, per esempio, sono il secondo mercato di sbocco –, la dipendenza commerciale permette agli Stati Uniti di avere un’influenza politica su questi Paesi. Per esempio, Trump potrebbe decidere di vietare la vendita di vino italiano negli Stati Uniti se l’Italia non dovesse incentivare con sgravi fiscali la vendita di auto statunitensi. È un esempio piuttosto estremo, ma è evidente che una minaccia di questo tipo avrebbe conseguenze molto negative sul settore agroalimentare, che rappresenta una componente importante della nostra economia.

Comunque, la lettera di Trump termina con la minaccia da parte del presidente degli Stati Uniti di alzare ulteriormente i dazi in futuro se l’Unione europea decidesse di rispondere con dei contro-dazi. Se, per esempio, l’Unione europea decidesse di imporre dazi ai beni e ai servizi statunitensi al 10 per cento, gli Stati Uniti potrebbero replicare con un’ulteriore dazio sui prodotti importati dall’Ue, che farebbe salirebbe al 40 per cento le tariffe sui prodotti europei (il 30 per cento iniziale più il 10 per cento in risposta ai contro-dazi). Con questa minaccia, Trump vuole impedire qualsiasi tipo di ritorsione da parte dell’Ue. In ogni caso, come abbiamo spiegato in un altro approfondimento, un’eventuale ritorsione dei Paesi europei attraverso i contro-dazi rischierebbe di danneggiare ancora di più l’Unione europea.

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