La guerra fra Israele e Iran ha messo in evidenza quanto la connettività dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc, di cui fanno parte Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti – Eau, Qatar, Kuwait, Bahrein e Oman), sia la loro forza e, insieme, il primo fattore di vulnerabilità. Durante il conflitto durato dodici giorni, la vicinanza geografica con l’Iran ha accresciuto i rischi di sicurezza per le monarchie (energetici, marittimi, infrastrutturali, ambientali), nonché per la stabilità del Golfo. Rischi ora ridimensionati dal cessate il fuoco raggiunto fra Tel Aviv e Teheran, ma che tornerebbero ad affacciarsi in caso di ripresa delle ostilità. Rischi che, a ogni modo, evidenziano le molte vulnerabilità di questi paesi, soprattutto Qatar, Bahrein e Kuwait, in caso di un conflitto che coinvolga l’Iran. Rispetto alla guerra Israele-Iran e alla breve partecipazione militare degli Stati Uniti al fianco di Tel Aviv, le monarchie del Golfo hanno scelto una postura di “neutralità attiva”[1], con l’obiettivo di trovare soluzioni diplomatiche ed evitare qualunque forma di coinvolgimento, anche indiretto, nella guerra. Da subito, de-escalation e diplomazia sono state le coordinate – con alcune sfumature – dell’azione politica delle monarchie, finalizzata a preservare la stabilità della regione del Golfo. In tale contesto, l’attacco iraniano alla base militare statunitense di al-Udeid in Qatar (23 giugno), pur se anticipato alle stesse autorità di Doha, lascia scorie politiche superabili nel rapporto Qatar-Iran, con l’emirato degli al-Thani (di nuovo) protagonista delle trattive diplomatiche, stavolta finalizzate al cessate il fuoco fra Tel Aviv e Teheran. L’attacco ad al-Udeid enfatizza, dall’altra parte, l’unità politica dei paesi del Gcc di fronte alle minacce esterne.
Quadro interno
La guerra tra Israele e Iran ha posto le monarchie del Golfo di fronte a molti potenziali rischi. Alcuni sono strettamente di sicurezza militare, altri riguardano la sicurezza economica (energetica, marittima, infrastrutturale), oppure la sicurezza pubblica (ad esempio, ambientale e idrica). In sintesi, Kuwait, Bahrein e Qatar sono i paesi più vulnerabili ai rischi derivanti da una guerra contro l’Iran. Questi paesi si affacciano soltanto sul Golfo, commerciano via mare solo attraverso lo Stretto di Hormuz, si appoggiano a impianti di desalinizzazione per l’acqua potabile situati lungo la costa del Golfo, ospitano grandi basi militari americane (Bahrein e Qatar) o confinano anche con paesi in cui operano milizie sciite filo-iraniane (il Kuwait con l’Iraq). In generale, l’export di gas naturale liquefatto (Gnl) dal Golfo è più a rischio del petrolio in caso di guerra, dal momento che i principali paesi esportatori (Qatar ed Eau) non utilizzano rotte alternative allo Stretto.
Sicurezza ambientale: i rischi idrici della contaminazione nucleare
Le monarchie del Golfo hanno temuto la contaminazione ambientale per effetto dei bombardamenti sui siti del programma nucleare iraniano. La preoccupazione si è concentrata soprattutto sull’impianto di energia nucleare di Bushehr, l’unico reattore attivo in Iran. Situato nel sud del paese, l’impianto è stato costruito dalla Russia e impiega circa 200 tecnici russi. L’eventuale fuoriuscita di materiale radioattivo da Bushehr potrebbe contaminare l’aria nonché le acque del Golfo: le monarchie utilizzano queste ultime, mediante impianti di desalinizzazione, come acqua potabile e per uso domestico, agricolo e industriale. Il rischio contaminazione paralizzerebbe, per esempio, il settore della pesca, e potrebbe coinvolgere – nella sua massima gravità – i circa 60 milioni di abitanti totali dei paesi del Gcc. Nel marzo 2025 il primo ministro del Qatar Mohammed al-Thani aveva dichiarato in un’intervista che – nella peggiore delle ipotesi – l’esplosione di Bushehr avrebbe privato le monarchie del Golfo di acqua entro tre giorni[2], nonostante i piani d’emergenza predisposti e le riserve d’acqua accumulate. Gli impianti di desalinizzazione, situati sulle coste, sono dunque fortemente esposti a rischi ambientali: il Qatar dipende al 100% dall’acqua desalinizzata, l’Arabia Saudita per il 50% (al 2023), gli Eau per l’80% dell’acqua potabile a disposizione[3].
Sicurezza energetica e marittima: l’export di petrolio e gas mediante lo Stretto di Hormuz
Dal choke point dello Stretto di Hormuz transita il 25% del petrolio mondiale e un quinto del gas naturale liquefatto (Gnl), esportato soprattutto dal Qatar[4]. Il 70% dei transiti energetici che attraversano Hormuz sono diretti in Asia: tra questi, circa il 55% del petrolio saudita è lì destinato[5]. Il Kuwait, dipendente da Hormuz, sta esportando soprattutto raffinati petroliferi e, come il Qatar e gli Emirati quanto al Gnl, ha incrementato i contratti di fornitura con Gran Bretagna e paesi dell’Unione europea dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Eventuali attacchi iraniani contro le navi commerciali, a cominciare dalle petroliere, colpirebbero dunque gli interessi economici delle stesse monarchie, che con Teheran hanno riavviato il dialogo. L’Iran, oltreché l’utilizzo di missili, droni e mine, potrebbe mettere in atto azioni di disturbo elettronico della navigazione “disorientando” i sistemi Gps che danno la rotta delle navi. L’ipotesi non è remota: da questa primavera si stanno registrando episodi di anomalie ai sistemi Gps nel Mar Rosso, con interferenze (jamming) e false segnalazioni (spoofing) che “disorientano” la navigazione delle navi e hanno causato anche l’incagliamento di una nave container. Questo fenomeno di warfare elettronico si è verificato soprattutto fra Jeddah e Port Sudan, seppur non vi siano fin qui evidenze circa la responsabilità degli houthi yemeniti, alleati dell’Iran. Durante la guerra Israele-Iran, due petroliere sono entrate in collisione il 17 giugno, al largo della costa di Fujairah (Eau), provocando un incendio: l’episodio potrebbe essere riconducibile proprio al malfunzionamento dei sistemi elettronici di navigazione, forse dovuti alle attività belliche in corso nell’area. A differenza di Kuwait, Bahrein e Qatar, Arabia Saudita, Eau e soprattutto Oman possono contare su rotte marittime alternative al Golfo e allo Stretto di Hormuz. L’Arabia Saudita sta potenziando la via del Mar Rosso, mediante la East-West Pipeline (Petroline), che collega i giacimenti petroliferi della regione orientale saudita (Abqaiq) con il terminal di Yanbu sul Mar Rosso. Petroline ha una capacità massima di 5 milioni di barili di petrolio al giorno: al momento, da qui transitano circa 2 milioni di barili di greggio al giorno (l’export totale saudita si aggira oggi intorno ai 6 milioni di barili giornalieri). Tuttavia, la rotta del Mar Rosso meridionale non può più essere considerata un’alternativa sicura a Hormuz, dati gli attacchi degli houthi alla navigazione, sebbene l’ultimo registrato si sia verificato nel novembre 2024. Al momento, Petroline può dunque essere una risorsa per l’export verso l’Europa via Suez (Mar Rosso settentrionale), ma non verso l’Asia, prima acquirente di greggio saudita. Dalla crisi nel Mar Rosso del 2024, i sauditi hanno infatti spostato il transito di parte del greggio dal Bab el-Mandeb a Hormuz. Gli Eau hanno la possibilità di oltrepassare lo stretto di Hormuz attraverso Fujairah, il settimo emirato della federazione, l’unico collocato a est del celebre choke point. Nel 2012 gli Emirati hanno inaugurato l’oleodotto Hasban-Fujairah, che collega direttamente i giacimenti petroliferi di Abu Dhabi (qui si trova circa il 90% dei pozzi totali degli Eau) all’Oceano Indiano. L’oleodotto che arriva a Fujairah – hub regionale per stoccaggio e rifornimento – può trasportare quasi due milioni di barili di petrolio al giorno[6], ovvero il 75% dell’export petrolifero emiratino. Tuttavia, come il Qatar, anche gli Emirati possono esportare Gnl solo attraverso la rotta dello Stretto e il paese sarebbe, pertanto, esposto a un’eventuale crisi a Hormuz. L’Oman si affaccia sul Golfo omonimo, quindi a est dello Stretto, e poi direttamente sull’Oceano Indiano. Attualmente, l’Oman esporta il suo greggio attraverso il terminal di Mina al-Fahal, vicino alla capitale Muscat, nel Golfo dell’Oman. Tuttavia, anche Muscat sta costruendo rotte alternative per l’export, allontanandosi geograficamente dai potenziali rischi del quadrante Golfo dell’Oman-Mar Arabico settentrionale, nonché per le relazioni economiche sempre più strette con i paesi asiatici. Nel 2022 l’Oman ha avviato il progetto di potenziamento dell’export petrolifero dal terminal di Ras Markaz, situato nella Zona economica speciale di Duqm (Sezad), in pieno Oceano Indiano. Inoltre, la costruzione della Uae-Oman Rail Network (già in corso) consentirà un collegamento ferroviario veloce tra il sultanato e gli Eau. Questo permetterà al porto omanita settentrionale di Sohar di inserirsi nella rete commerciale dei porti emiratini, nonché agli Emirati di aprirsi un’altra rotta a est di Hormuz, oltre a Fujairah.
Sicurezza infrastrutturale: i porti commerciali
I porti emiratini, hub commerciali per il transito di merci e viaggiatori tra Asia, Africa ed Europa, sono situati proprio nel collo di bottiglia di Hormuz. Il porto più importante degli Eau, Jebel ‘Ali (Dubai), si trova di fronte a Bandar Abbas, dove risiede il comando della Marina del Corpo delle guardie della Rivoluzione islamica (Irgc). Molto vicino anche il porto di Khalifa (Abu Dhabi). Gli Eau possono evitare lo stretto di Hormuz commerciando tramite il porto di Fujairah, l’unico emiratino della federazione situato a est del choke point. Nel Golfo, Port Hamad, ovvero il fulcro commerciale del Qatar, e il porto Khalifa bin Salman del Bahrein sono anch’essi posizionati di fronte alle coste iraniane, così come i porti sauditi di Dammam e Jubail, quest’ultimo hub per l’export industriale. Potenzialmente ancora più critica la situazione del Kuwait. I tre porti del piccolo emirato, Shuwaikh (il principale), Shuaiba e Mubarak al-Kabir (ancora in costruzione, ora oggetto di investimenti della Cina) sono – oltreché molto vicini l’uno all’altro data l’estensione territoriale del Kuwait – ipoteticamente esposti ad attacchi dall’Iran ma anche dal confinante sud dell’Iraq, dove si trovano milizie sciite filo-iraniane. In termini di infrastrutture marittime, l’Arabia Saudita e, in misura minore, gli Emirati possono fare affidamento su porti alternativi alla rotta di Hormuz. Tuttavia, i porti sauditi nel Mar Rosso (Yanbu, King Abdullah Port, Jedda), non possono rappresentare un’alternativa sicura per l’export diretto in Asia, dato che le navi dovrebbero passare per lo stretto del Bab el-Mandeb, teatro di numerosi attacchi degli houthi yemeniti nel 2024.
Basi e militari degli Stati Uniti
Le monarchie del Golfo ospitano basi militari americane sul loro territorio in Qatar, Eau, Bahrein e Kuwait, più la presenza di soldati statunitensi in Arabia Saudita (circa 2.700) e Oman presso basi militari nazionali, con funzioni di addestramento e assistenza. I numeri sono consistenti: quasi 10.000 soldati USA sono presenti nella base qatarina di al-Udeid (la più grande base americana in Medio Oriente, sede di Centcom il Comando centrale delle forze armate statunitensi), 9.000 presso la V Flotta degli Stati Uniti in Bahrein, 3.500 ad al-Dhafra negli Eau (dove si trova il Gulf Air Warfare Center per l’addestramento alla difesa anti-missilistica e anti-droni), altre 3.500 truppe statunitensi in Kuwait.
Quadro esterno
Le monarchie del Golfo hanno unanimemente disapprovato l’attacco di Israele all’Iran del 13 giugno, sebbene con sfumature linguistiche differenti. L’Arabia Saudita ha espresso “forte condanna e denuncia per la palese aggressione israeliana” che, ha proseguito Riyadh, “costituisce una chiara violazione delle leggi e norme internazionali”[7]. Ancora più forte il comunicato dell’Oman, che stava mediando fra statunitensi e iraniani sul dossier nucleare ed è il paese Gcc più vicino a Teheran. Muscat utilizza l’espressione “odiosa aggressione militare” e fa riferimento alle “vittime civili” dell’attacco[8]. Meno esplicito ma altrettanto fermo il comunicato degli Eau, firmatari nel 2020 degli Accordi di Abramo con Israele: Abu Dhabi ha condannato “nei termini più forti” l’attacco all’Iran, senza utilizzare la parola aggressione ma esprimendo “forte preoccupazione” per l’escalation e le ripercussioni regionali[9]. Simile – e non era scontato – il comunicato del Qatar, che ha espresso “forte condanna e profonda denuncia” dell’attacco israeliano, considerandolo una “palese violazione della sovranità dell’Iran”[10]. Doha ha adottato toni meno duri del previsto, forse per continuare a tessere la mediazione tra Israele e Hamas su Gaza. Il Kuwait ha “fortemente condannato l’aggressione di occupazione di Israele”[11] e, giorni dopo, il rappresentante permanente dell’emirato alle Nazioni Unite ha condannato “l’odiosa aggressione dell’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza e in Iran”[12], mettendo così insieme i due teatri di crisi. In seguito, il comunicato finale della riunione d’emergenza della ministeriale del Consiglio di cooperazione del Golfo (svoltasi online il 17 giugno), ha visto tutti i ministri degli Esteri condannare l’attacco israeliano, giudicandolo una “violazione della sovranità iraniana”[13]. Da subito, le monarchie hanno tenuto aperti i canali diplomatici con Teheran, anche attraverso forme di “diplomazia religiosa”. Per esempio, durante i bombardamenti israeliani sull’Iran, era in corso il grande pellegrinaggio annuale alla Mecca (hajj): il re saudita Salman bin Abdulaziz al-Saud ha emesso una direttiva affinché fosse fornito tutto l’aiuto necessario ai pellegrini iraniani impossibilitati a rientrare nel paese a causa della chiusura dello spazio aereo. Il giorno dopo l’attacco di Israele, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman al-Saud ha telefonato al presidente iraniano Masoud Pezeshkian per condannare gli attacchi di Israele (14 giugno), seguito qualche giorno dopo dal presidente emiratino Mohammed bin Zayed al-Nahyan (18 giugno). Da un lato, questi contatti vanno sicuramente ascritti al tentativo delle monarchie di prevenire eventuali contrattacchi dell’Iran e delle milizie a esso legate contro i loro territori; dall’altro, essi evidenziano il filo diplomatico che, soprattutto, Qatar, Arabia Saudita e Oman hanno sempre mantenuto durante i 12 giorni di guerra, con l’Arabia Saudita nel ruolo di guida politica. Sul piano geopolitico, le monarchie del Golfo hanno fin qui tratto vantaggio dalle operazioni militari e d’intelligence del governo israeliano dopo il 7 ottobre: l’indebolimento regionale dell’Iran e dei suoi alleati armati non statali ha rafforzato, indirettamente, il ruolo dell’Arabia Saudita in Medio Oriente. Il rallentamento o la distruzione del programma nucleare iraniano, nonché la riduzione dell’arsenale missilistico di Teheran durante la guerra Israele-Iran, giovano anche alla sicurezza delle monarchie. Tuttavia, la stabilità del Golfo è sempre stata al primo posto per Riyadh, dato l’imprevedibile contesto di escalation: la caduta del regime iraniano, o un conflitto prolungato, avrebbero potuto mettere a rischio la sicurezza del quadrante e, in parte, la crescita delle economie dell’area Gcc nel breve e medio periodo. Rispetto alla guerra Israele-Iran, sono emerse interessanti riflessioni sulla stampa araba del Golfo. Infatti, alcuni tra i più influenti e ascoltati intellettuali sauditi ed emiratini hanno espresso preoccupazione, in diversi articoli, circa l’interventismo unilaterale e il ricorso allo strumento militare adottati dal governo israeliano dopo il 7 ottobre[14]. Per esempio, il direttore del quotidiano saudita Arab News, Faisal Abbas, si è soffermato in un editoriale sull’uso che l’attuale esecutivo israeliano farebbe della sicurezza per rafforzare la sua posizione regionale, concludendo che “i governi del Medio Oriente devono riconoscere questa tattica e lavorare attivamente per contrastare gli sforzi che minacciano la sovranità nazionale”[15]. Uno degli intellettuali emiratini più influenti, il professor Abdulkhaleq Abdulla, ha sottolineato in un’intervista come un Iran più debole possa essere un fattore di stabilizzazione per la regione, “ma esiste anche il rischio che Israele si faccia più aggressivo ed espansionista”[16]. Ancora più netto un editoriale del quotidiano emiratino The National, in cui il foreign editor, riflettendo sul crescente potere dell’estrema destra nel governo di Tel Aviv, ha scritto che uno dei rischi più grandi per il Medio Oriente attuale è che il rafforzamento di un governo israeliano “guidato da estremisti conduca la regione verso anni – forse decenni – di instabilità”, a causa di “un’agenda di espansionismo, annessione e ultra-nazionalismo”[17]. Insieme agli interrogativi sui futuri equilibri inter-statali nella regione, la guerra fra Tel Aviv e Teheran ha avuto una ripercussione diretta sul Qatar e, più in generale, sui rapporti fra i paesi del Gcc e l’Iran. Infatti, l’attacco di ritorsione (23 giugno) sferrato dalla Repubblica islamica contro la più grande base militare statunitense in Medio Oriente, quella di al-Udeid in Qatar, dopo che Washington aveva bombardato il sito nucleare di Fordow (22 giugno), segna un evento nuovo per l’area. L’attacco missilistico è stato anticipato dalle autorità iraniane a quelle qatarine: quasi tutti i missili sono stati intercettati dalla difesa aerea di Doha, che negli anni ha investito in sistemi anti-missilistici (in chiave anti-Iran ma anche dopo l’embargo da parte dei vicini, 2017-2021): la base militare era stata evacuata da giorni, non ci sono state vittime né feriti. L’Iran ha colpito al-Udeid per colpire gli Stati Uniti, visto che la base è la sede di Centcom, il Comando centrale delle forze armate americane, non per colpire il Qatar. I rapporti tra Doha e Teheran sono tradizionalmente cordiali e i due paesi condividono lo sfruttamento del più grande giacimento di gas offshore del mondo (suddiviso in North Dome per i qatarini, South Pars per gli iraniani). L’attacco ad al-Udeid rientra in una cornice di de-escalation – poiché ha rappresentato la risposta iraniana propedeutica alla “chiusura” del conflitto: Doha ha poi avuto un ruolo nella trattativa per il cessate il fuoco tra israeliani e iraniani voluto dagli Stati Uniti e da lì spera di rilanciare il negoziato per il rilascio degli ostaggi israeliani in cambio di, almeno, una tregua nella Striscia. Nonostante ciò, i missili su al-Udeid lasciano delle scorie politiche nei rapporti tra i due paesi, al netto della ritualità del linguaggio diplomatico. Dopo l’attacco, il Qatar ha denunciato la “flagrante violazione della sovranità”, riservandosi inoltre “il diritto di rispondere direttamente in maniera equivalente”[18]. La solidarietà delle altre monarchie del Golfo è stata immediata e forte, a cominciare dall’Arabia Saudita che ha definito l’attacco iraniano una “aggressione ingiustificabile” in “violazione della legge internazionale e del principio di buon vicinato”[19]. Il giorno dopo (24 giugno) si è subito svolta in Qatar una riunione eccezionale dei ministri degli Esteri dei paesi Gcc, i quali hanno ribadito che la sicurezza del Gcc è “indivisibile”[20]. Nello stesso giorno, il Qatar ha convocato l’ambasciatore dell’Iran per deplorare l’accaduto: in contemporanea, però, il principe ereditario saudita ha espresso la propria soddisfazione al presidente iraniano per il cessate il fuoco tra Israele e Iran nel frattempo raggiunto, riaffermando l’impegno saudita a risolvere le dispute attraverso la diplomazia. Il 25 giugno il presidente degli Eau si è per primo recato in visita in Qatar, segno tangibile dell’unità del Gcc, i cui paesi membri condividono la priorità della stabilità regionale, nel contesto dei processi di diversificazione economica oltre gli idrocarburi.
[1] Si rimanda a F. Abbas, “Israel vs. Iran: Why Riyadh is committed to de-escalation”, Arab News, 21 giugno 2025.
[2] M. Salem, “Anxiety grips Gulf Arab states over threat of nuclear contamination and reprisals from Iran”, CNN, 19 giugno 2025.
[3] A. Macaskill, F. Maccioni e P.Magid, “Explainer: What are the nuclear contamination risks from attacks on Iran?” Reuters, 22 giugno 2025.
[4] C. Dunn e J. Barden, “Amid regional conflict, the Strait of Hormuz remains critical oil chokepoint”, U.S. Energy Information Administration, 16 giugno 2025.
[5] K.E. Young, “Trade Tensions, Oil Sanctions, and the Future of Middle East Oil”, Georgetown Journal of International Affairs, 13 maggio 2025.
[6] Dunn e Barden (2025).
[7] “Saudi Arabia Strongly Condemns the Blatant Israeli Aggressions Against Iran”, Saudi News Agency (SPA), 13 giugno 2025.
[8] “Oman strongly condemns Israel attack against Iran”, Times of Oman, 13 giugno 2025.
[9] United Arab Emirates Ministry of Foreign Affairs, “UAE Condemns in the Strongest Terms Israel’s Military Targeting of the Islamic Republic of Iran”, 13 giugno 2025.
[10] Qatar’s Ministry of Foreign Affairs, “Qatar Strongly Condemns and Denounces Israeli Attack on Iran”, 13 giugno 2025.
[11] “Kuwait strongly condemns Israeli occupation’s attack on Iran”, KUNA, 13 giugno 2025.
[12] “Kuwait condemns Israeli occupation aggression on Gaza, Iran”, KUNA, 21 giugno 2025.
[13] “GCC on high alert as Israel-Iran conflict threatens regional stability”, Zawya, 17 giugno 2025.
[14] Per una riflessione sui paesi arabi, in particolare del Golfo, nella guerra Israele-Iran si veda, E. Ardemagni, “Ecco perché la guerra Israele-Iran (e quello che verrà dopo) fa riflettere il Golfo”, ISPI, 19 giugno 2025.
[15] F. Abbas, “Iran vs. Israel: Adults in the room need to act quickly”, Arab News, 17 giugno 2025.
[16] V. Ghanem, “Regional governments on high alert to de-escalate Israel-Iran conflict”, The National, 17 giugno 2025.
[17] M.A. Harisi, “There is a fine line between changing Iran and emboldening Israel’s extremists”, The National, 23 giugno 2025.
[18] Qatar Ministry of Foreign Affairs, “Advisor to Prime Minister and Official Spokesperson for Ministry of Foreign Affairs: Qatar Strongly Condemns Attack That Targeted Al-Udeid Air Base”, 23 giugno 2025.
[19] “Saudi Arabia condemns ‘unjustifiable’ Iranian attack on Qatar”, Al Arabiya, 23 giugno 2025.
[20] “Amir receives Foreign Ministers of GCC”, The Peninsula, 24 giugno 2025.
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