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Israele e Palestina: verso la tregua?


Sebbene l’attenzione mediatica e politica in Medio Oriente si sia oggi spostata in modo marcato sull’Iran – indicato da Israele come il “fronte principale”[1] del conflitto regionale iniziato il 7 ottobre 2023 – la complessità della situazione nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania continua a rappresentare un nodo cruciale per comprendere le dinamiche in corso tanto sul piano interno israeliano, quanto nel versante palestinese e regionale.

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Il fronte umanitario e diplomatico di Gaza

Il conflitto nella Striscia prosegue senza tregua e il bilancio delle vittime ha ormai superato i 56.000 palestinesi uccisi, di cui più di 20.000 bambini, aggravando una crisi umanitaria che ha già oltrepassato ogni soglia di tolleranza[2]. Gran parte del territorio è ridotto in macerie, mentre il blocco degli aiuti umanitari internazionali – in vigore da marzo 2025, ossia dalla ripresa delle ostilità dopo la fine della tregua di gennaio – espone la popolazione civile al rischio concreto di carestia. Non a caso, l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato un appello urgente per consentire l’ingresso di carburante nella Striscia, fondamentale per mantenere operativi i pochi ospedali ancora attivi, i quali se si dovessero fermare completamente porterebbero al collasso il già fragile sistema sanitario locale[3]. Malgrado le forti critiche espresse dalle Nazioni Unite e da numerosi attori europei nei confronti dell’operato israeliano, Tel Aviv ha respinto tutte le accuse, compresa quella di commettere un genocidio a Gaza[4]. Inoltre, nel tentativo di scalzare l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) dalla gestione diretta degli aiuti ai palestinesi e allontanare qualsiasi operatore internazionale ritenuto indipendente, il governo Netanyahu ha deciso di istituire un nuovo organismo privato israelo-americano, la Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), incaricato di centralizzare la gestione del supporto umanitario[5]. Oltre alle critiche sulla distribuzione degli aiuti, l’Ong – che ha entità registrate nel Delaware, negli Stati Uniti e a Ginevra, in Svizzera – presenta profili critici in termini di trasparenza e legittimità in quanto delega tutto il processo, compresa la sicurezza e l’ordine pubblico, a società private statunitensi, protette dalle Forze di difesa israeliane (Idf) e da discutibili attori locali[6]. La gestione accentrata ha generato gravi disfunzioni e numerose polemiche, in particolare episodi violenti avvenuti nei pressi dei centri di distribuzione. Uno dei casi più drammatici è quello dell’11 giugno, quando le Idf hanno aperto il fuoco su una folla affamata in attesa di aiuti, provocando la morte di 31 persone e il ferimento di circa 200 civili[7].

Il quadro umanitario è destinato in ogni caso a peggiorare ulteriormente di fronte all’inazione della comunità internazionale e all’avvio dell’operazione militare israeliana denominata “Carri di Gedeone”. L’obiettivo dichiarato è un’offensiva estesa contro Hamas, comprendente la presa di Gaza e la sua occupazione fino al conseguimento di tutti gli obiettivi strategici. Le Idf hanno già rioccupato circa il 40% dell’area, suddividendola in cinque settori da nord a sud in modo da impedire continuità geografica e collegamenti tra i vari operativi di Hamas, con l’intenzione di mantenere sotto controllo almeno il 75% del territorio nel lungo periodo. Il fine ultimo, mai realmente smentito da parte israeliana, appare essere lo sfollamento forzato di oltre 2 milioni di palestinesi verso aree circoscritte nel centro e sud di Gaza, che rappresentano solo il 25% del territorio residuo. Secondo il Times of Israel, la popolazione verrebbe progressivamente concentrata in zone ritenute “sicure” come al-Mawasi, Deir al-Balah, Nuseirat e il centro di Gaza City. Il rischio, concreto, è che al deteriorarsi delle condizioni umanitarie molti civili vengano spinti a lasciare le aree in questione per trovare riparo in Egitto e nella penisola del Sinai, considerata da Israele come l’unica alternativa percorribile per accogliere i profughi espulsi dalla Striscia[8].

La politicizzazione della crisi umanitaria[9] e il consolidamento del piano militare israeliano rendono sempre più evidente l’assenza di una reale prospettiva diplomatica. A oggi, non esiste alcuna proposta concreta di tregua, tanto meno un’ipotesi credibile di cessate il fuoco. Nonostante la gravità della situazione, l’Onu continua a essere paralizzata dai veti incrociati dei suoi membri permanenti, mentre gli Stati Uniti sembrano riluttanti a imporre limiti temporali o strategici all’azione israeliana. Anche l’Unione europea (UE) si mostra divisa su come intervenire, incapace di adottare una linea condivisa nei confronti di Tel Aviv. Sotto la pressione dell’opinione pubblica – in particolare in paesi come Francia, Olanda e Spagna – 17 Stati membri dell’UE hanno comunque lanciato un appello a Israele, chiedendo l’immediata ripresa dei negoziati con le autorità palestinesi e l’apertura senza ostacoli dei corridoi umanitari. In caso contrario, è stata minacciata la sospensione degli accordi commerciali con Tel Aviv. Tuttavia, a fronte di queste prese di posizione verbali, non seguono azioni concrete. Ogni forma di pressione resta debole, incapace di incidere sulle scelte politiche e militari di Israele, che continua così ad agire con ampi margini di manovra, tanto sul piano diplomatico quanto su quello operativo a Gaza[10].

Quadro interno ed equilibri di governo in Israele

Nel mese di giugno le sorti politiche del primo ministro Benjamin Netanyahu sono state caratterizzate da una parabola ascendente, cominciata con il tentativo di dissoluzione della Knesset dello scorso 11 giugno portato avanti dai partiti di opposizione e culminata con il successo dell’operazione militare “Rising Lion” contro l’Iran.

Anche questa volta, la minaccia di elezioni anticipate è nata da una crisi sempre più profonda all’interno della coalizione di governo riguardo alla coscrizione militare obbligatoria per i giovani haredim. Le frizioni tra i partiti haredi (Shas ed Ebraismo della Torah unito) e Netanyahu si stanno protraendo dallo scorso anno, quando una sentenza dell’Alta corte di giustizia ha invalidato la consolidata esenzione dal servizio militare per gli ultraortodossi[11]. In risposta, Shas e Giudaismo della Torah unita hanno iniziato a fare pressione sul primo ministro al fine di ottenere una legge che preveda una rinnovata esenzione formale per gli studenti delle yeshivah (le scuole religiose ebraiche di studio dei testi biblici).

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Un punto chiave di contesa sono state le sanzioni proposte contro i dichiarati disertori, come il divieto di ottenere la patente di guida e l’imporre restrizioni all’uscita dal paese, argomento su cui gli stessi leader dei partiti haredi sono divisi: mentre i parlamentari di Ebraismo della Torah unito hanno mostrato posizioni più intransigenti, Shas si è dimostrato più incline al compromesso[12]. Entrambi i partiti, avevano dichiarato nei giorni precedenti al voto che si sarebbero espressi a favore dello scioglimento della Knesset, poiché la coalizione non è riuscita ad approvare la tanto desiderata legge. In questo scenario, i leader dell’opposizione hanno deciso di accelerare le tempistiche per presentare la mozione, proprio al fine di approfittare delle fratture dell’esecutivo e assicurarsi i voti necessari per promuoverla. Alla vigilia dell’11 giugno, infatti, la coalizione deteneva 68 dei 120 seggi parlamentari, rendendo indispensabile il sostegno sia da parte di Shas sia di Giudaismo della Torah unita.

Tuttavia, poco prima del voto, alcuni rappresentanti di Ebraismo della Torah unito (più precisamente i parlamentari della fazione Bandiera della Torah) e Shas hanno dichiarato che, contrariamente a quanto espresso precedentemente, non avrebbero votato per lo scioglimento della Knesset in quanto avrebbero raggiunto all’ultimo momento un accordo con il presidente della commissione Affari Esteri e Difesa Yuli Edelstein[13], il più grande oppositore alle richieste ultraortodosse. Il voto finale è stato di 61 contrari e 53 favorevoli[14].

Sebbene il governo di Netanyahu sia riuscito a sventare l’ennesima crisi, la votazione ha portato con sé conseguenze tangibili per la stabilità della coalizione: Netanyahu si ritrova ora con una fragile maggioranza di 64 membri (sui 120 seggi disponibili alla Knesset) in seguito alle dimissioni del ministro Yitzhak Goldknopf, leader di Unione di Israele (fazione di Ebraismo della Torah unito). Le dimissioni dal suo incarico hanno infatti avuto un effetto domino in base alla cosiddetta “legge norvegese”[15], che prevede l’abbandono della coalizione anche da parte degli altri membri della fazione del ministro uscente.

Tuttavia, Netanyahu sembra essere riuscito ad assicurare la tenuta del governo per almeno altri sei mesi; infatti, non solo è in procinto di raggiungere la tanta agognata pausa estiva della Knesset (28 luglio), ma il fallimento della votazione sullo scioglimento del parlamento non permette all’opposizione di ripresentare una simile proposta per altri sei mesi. Una considerazione finale riguarda la natura della questione centrale alla sventata crisi: la leva obbligatoria. Dopo 20 mesi di guerra aperta, l’opinione pubblica israeliana considera il contributo allo sforzo nazionale un argomento di particolare importanza e di estrema delicatezza. Osservando il comportamento del primo ministro in questo particolare frangente, si conferma la percezione da parte della maggioranza degli israeliani di come Netanyahu stia guidando il paese basandosi su considerazioni personalistiche invece che di interesse nazionale[16].

Il 13 giugno, due giorni dopo aver evitato lo scioglimento della Knesset, è stato dato inizio all’“Operation Rising Lion” contro le strutture nucleari e militari iraniane; la portata di questo evento non è cruciale solo per le sue conseguenze geopolitiche, ma anche per le sue ripercussioni sulla politica interna israeliana. Un sondaggio condotto, tra il 15 e il 17 giugno, dal Viterbi Family Center for Public Opinion and Policy Research presso l’Israel Democracy Institut[17] mostra, infatti, come l’80% dell’opinione pubblica israeliana sostenga l’attacco all’Iran e come i due terzi degli intervistati ritengano che le considerazioni del primo ministro siano oggettive e legate alla sicurezza nazionale. Opinioni che vanno in netto contrasto con la posizione dell’opinione pubblica rispetto al conflitto a Gaza.

Inoltre, secondo un sondaggio di Channel 12 News[18], se le elezioni della Knesset si tenessero oggi, i partiti della coalizione di Netanyahu vincerebbero 49 seggi sui 120. Il Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu guadagnerebbe quattro seggi rispetto al sondaggio precedente, condotto circa tre settimane prima, diventando il partito più forte con 26 seggi. Dal momento in cui Netanyahu ha formato la sua coalizione di governo nel dicembre 2022, i sondaggi sono stati sfavorevoli e la percezione della riuscita operazione contro l’Iran rappresenta un momento cruciale per il primo ministro per rafforzarsi politicamente.

Sebbene dal punto di vista militare e di sicurezza sia stata basata sulle informazioni presentate dal capo di Stato maggiore, dall’intelligence militare e dal Mossad, le motivazioni che hanno condotto Netanyahu a lanciare questa operazione, restano a oggi non del tutto chiare: a sollevare interrogativi è in special modo la tempistica scelta, che sembrerebbe servire considerazioni di politiche di coalizione. “Operation Rising Lion” è iniziata infatti il giorno dopo il fallito tentativo di scioglimento della Knesset. Con l’inizio dei bombardamenti sull’Iran, le questioni care ai membri della coalizione di Netanyahu (in special modo la legge sulla leva obbligatoria dei giovani haredim) sono state messe in pausa per causa di forza maggiore. In tal modo, Netanyahu ha potuto mettere in atto una tattica ben consolidata: rimandare tutto ciò che può essere risolto con esito favorevole, attendere che si propongano condizioni migliori e sfruttarle a proprio vantaggio, cogliendo l’opportunità di sopravvivenza politica ogni qual volta si presenti.

Israele e la politica internazionale: il confronto con l’Iran

Dallo scoppio delle ostilità tra Israele e Iran, il 13 giugno 2025, attacchi israeliani hanno interessato importanti impianti nucleari e militari a Natanz, Isfahan, Parchin, Bonab, Teheran e Arak[19]. Inoltre, almeno 11 dei più importanti scienziati nucleari iraniani sarebbero stati assassinati. Gli attacchi ai siti nucleari iraniani riflettono una strategia calcolata per causare gravi danni ai nodi critici del processo alla base dello sviluppo delle armi nucleari.

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Sebbene la frizione israelo-iraniana sia stata un elemento costante ed evidente nelle dinamiche geopolitiche mediorientali almeno degli ultimi vent’anni, la tempistica di questo attacco ha lasciato sorpresi e perplessi osservatori e opinione pubblica mondiale. Per comprendere i fattori strategici e militari che hanno reso possibile l’operazione “Rising Lion” bisogna in primo luogo riconoscere come dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023[20] abbia reso più urgenti le valutazioni israeliane in ambito di sicurezza, facendo abbandonare ad Israele l’assetto difensivo della sua postura militare in favore di uno più aggressivo. Inoltre, sebbene la campagna israeliana sia stata definita dall’effetto sorpresa, le basi per questa azione sono state gettate da anni attraverso: l’indebolimento[21] dell’“Asse della Resistenza”[22], l’oppressione di alcuni punti chiave del sistema di difesa aerea iraniano (abbattuti durante gli attacchi aerei del 26 ottobre 2024) e la creazione di basi operative in territorio iraniano che hanno permesso di supportare gli attacchi dell’aviazione mediante il lancio di armi di precisione a corto raggio verso gli obbiettivi prescelti.

È fondamentale quindi comprendere quanto profondamente il trauma del 7 ottobre abbia rimodellato la psiche nazionale e la posizione strategica di Israele, non sottovalutando il grado di preparazione con cui Israele si sia presentato di fronte a questo evento cruciale. Negli ultimi 20 anni, i vertici militari e dell’intelligence israeliana hanno lavorato metodicamente, per mettere a punto tutti i tasselli necessari: intelligence, cybersecurity, potenza aerea, capacità di attacco a lungo raggio, coordinamento regionale e profondità della penetrazione israeliana in territorio iraniano[23]. Ma il 7 ottobre ha fornito il quadro politico, geopolitico ed emotivo per finalizzare gli attacchi al programma nucleare iraniano.

L’obiettivo dell’attacco israeliano in territorio iraniano ha avuto un obbiettivo preciso: negare all’Iran la capacità di produrre un’arma nucleare. Nonostante questo processo abbia subito una significativa battuta di arresto per via dei danni subiti alle infrastrutture nucleari, gli attacchi israeliani e americani non offrono certo una risposta esaustiva alla questione iraniana. In definitiva, la soluzione a lungo termine potrà essere raggiunta attraverso canali diplomatici e non militari. Un altro scenario che vedrebbe il cessare delle ostilità ideologiche e geopolitiche sarebbe l’avvento di un cambio di regime a Teheran. La realizzazione di tale evento, però, non è mai stato tra gli obbiettivi dell’operazione israeliana, dichiarati o impliciti. Il cessate il fuoco del 24 giugno segna la conclusione della fase più intensa a oggi dello scontro tra Israele e la Repubblica islamica e potrebbe aprire una fase di mediazione[24] tra Teheran e attori chiave internazionali per la gestione dell’annosa questione sul nucleare iraniano.

Il cessate il fuoco è giunto qualche giorno dopo la decisione del 21 giugno del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di lanciare un attacco militare contro i siti nucleari in Iran (operazione “Martello di mezzanotte”). Quello statunitense è stato un intervento significativo non solo in termini di contributo nella distruzione delle capacità nucleari dell’Iran[25], ma anche nell’accelerare la fine delle ostilità, evitando un eventuale ulteriore allargamento del conflitto nella regione. Infatti, l’operazione israeliana in un teatro altamente interconnesso e diplomaticamente sensibile come l’attuale Medio Oriente ha notevolmente esposto gli Stati Uniti diplomaticamente e strategicamente[26]; ora che il round di scontri sembrerebbe giunto al termine, è arrivato anche il momento per Washington e Tel Aviv di ritrovare un bilanciamento di intenti nel perseguire ciascuno i propri obbiettivi strategici regionali. In quest’ottica, la decisione del primo ministro Benjamin Netanyahu di accettare il cessate il fuoco mediato dalla Casa Bianca è riconducibile ad un tentativo di moderazione strategica per accontentare l’alleato americano[27].

Quadro interno palestinese

Con uno scenario regionale in costante evoluzione e un contesto militare turbolento sia a Gaza sia in Cisgiordania, le autorità palestinesi mantengono un profilo basso, nel tentativo di guadagnare tempo in vista di un’eventuale iniziativa politica capace di rafforzare, in particolare, l’autorevolezza e la credibilità perdute dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). In un ambiente interno ed esterno caotico, il governo palestinese non si è certo distinto per coraggio nel contrastare le operazioni dell’Idf in Cisgiordania. Al contrario, l’Anp ha spesso collaborato con il governo israeliano, soprattutto sul piano della sicurezza, nel tentativo di eliminare tutte le forme di opposizione legate ad Hamas, considerata la principale minaccia all’unità intra-palestinese[28]. L’intento finale da parte dell’Anp non è solo quello di delegittimare Hamas, ma di riaccreditarsi dinanzi all’opinione pubblica palestinese, araba e mondiale come l’unica forza moderata in grado di gestire il presente e il futuro della causa palestinese. Un progetto ambizioso e non privo di rischi. Da un lato, l’Anp deve fronteggiare il processo di annessione de facto della Cisgiordania da parte di Israele, portato avanti attraverso l’espansione degli insediamenti dei coloni. Dall’altro, è chiamata a contenere le spinte interne e regionali che mirano a una sua uscita di scena, più o meno forzata[29]. In questo contesto, una parte significativa del successo del piano di Abu Mazen passa anche per il Libano e per il progetto di disarmo delle fazioni palestinesi attive nei campi profughi del paese. Il comitato congiunto palestinese-libanese incaricato dell’iter ha il compito non solo di migliorare la condizione e i diritti economici e sociali dei rifugiati palestinesi, ma anche di neutralizzare tutte le minacce alla stabilità dei due popoli. Saranno coinvolti tutti e dodici i campi profughi palestinesi presenti in Libano, da tempo diventati focolai di infiltrazione per gruppi ostili all’Anp (e a Fatah), a cominciare dai rivali di Hamas e del Jihad islamico palestinese fino ad arrivare a formazioni minori (come il Fronte popolare per la liberazione della Palestina – Comando generale), tutte critiche verso la leadership di Abu Mazen[30]. L’importanza di tale iniziativa non va sottovalutata, soprattutto, perché avviene in un momento cruciale anche per il Libano. A seguito dell’indebolimento di Hezbollah, conseguente alla guerra con Israele dello scorso autunno 2024, il governo libanese è sottoposto a crescenti pressioni internazionali affinché disarmi non solo il partito-milizia sciita, ma anche tutte le forze, comprese quelle palestinesi, che utilizzano il territorio libanese per condurre operazioni contro Israele – un processo in parte ricercato anche in Siria con il nuovo governo al-Sharaʿ. Disarmare le fazioni palestinesi armate all’interno e all’esterno dei campi profughi in Libano rappresenterebbe per lo stato libanese un passo fondamentale verso il recupero della propria piena sovranità. Per l’Anp, invece, si tratterebbe di un risultato politicamente spendibile anche in prospettiva del post-guerra a Gaza. Se si riuscisse a raggiungere un accordo vincolante tra le diverse fazioni palestinesi, Abu Mazen potrebbe vantare una rinnovata unità nazionale, rafforzando così la sua posizione personale e quella dell’Anp all’interno del panorama arabo-islamico. Tuttavia, questi sviluppi non garantirebbero automaticamente protezione alla popolazione palestinese, che resterebbe esposta alle politiche degradanti israeliane[31]. Solo un’iniziativa diplomatica internazionale, eventualmente promossa dalle Nazioni Unite e capace di coinvolgere oltre Gaza la Cisgiordania, potrebbe contribuire a invertire la rotta.


[1] Y. Kubovich, “IDF Declares Iran as Primary Warfront, Downgrades Gaza to Secondary Arena”, Haaretz, 14 giugno 2025.

[2] B. Yilmaz, “Gaza death toll tops 56,500 as Israel continues genocidal war against Palestinians”, Anadolu Ajansı, 3 giugno 2025.

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[3] Ibidem.

[4] A. Akass, “Government accused of ‘stark’ contradiction over position on Gaza genocide allegations”, Sky News, 3 giugno 2025.

[5] Alla base delle proteste internazionali contro la Ghf vi è la struttura stessa dell’organizzazione usata come strumento politico in dotazione a Tel Aviv per aggravare la condizione di fame e carestia e costringere i gazawi ad abbandonare quei territori. Per maggiori dettagli si veda, “Tutti i problemi della Gaza Humanitarian Foundation”, Il Post, 27 maggio 2025.

[6] In particolare, questo punto si è rivelato critico, poiché anche attraverso la Ghf, il governo israeliano ha affermato che da tempo Tel Aviv è impegnata in una sorta di engagement continuo verso tutte quelle realtà, anche terroristiche come le Popular Forces (PF) di Abu Shabab, operanti nel centro-sud della Striscia di Gaza in funzione dichiaratamente anti-Hamas. Proprio le PF, all’inizio di maggio, hanno dichiarato pubblicamente di contribuire alla protezione dei siti e degli aiuti della Ghf. Per maggiori dettagli si veda, J. Frankel, S. Mednick, S. Magdy, L. Keath, “Israel backs an anti-Hamas armed group known for looting aid in Gaza. Here’s what we know”, Associated Press, 7 giugno 2025.

[7] J. Borger, “Israeli forces kill at least 60 Palestinians seeking food in Gaza, health officials say”, The Guardian, 12 giugno 2025.

[8] E. Fabiani, “IDF aims to capture 75% of Gaza Strip in 2 months in new offensive against Hamas”, The Times of Israel, 25 maggio 2025.

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[9] Sul tema si veda, S. Abdulsamad, “Navigating the Politics of Humanitarian Aid in Gaza”, The Cairo Review of Global Affairs, 2024.

[10] T. Walter, “Netanyahu faces mounting international doubts over Gaza war”, Deutsche Welle, 27 maggio 2025.

[11] S. Ravitsky Tur-Paz, “A Year Since the Supreme Court’s Conscription Ruling – Was It Real, or Just a Dream?”, The Israel Democracy Institute, 25 giugno 2025.

[12]Barring ‘Dramatic Shift’, Haredi Political Leaders Say Vote to Dissolve Knesset Imminent”, Haaretz, 11 giugno 2025.

[13] S. Sokol, “Edelstein urges ‘real solution’ as work set to begin on revising Haredi draft bill”, The Times of Israel, 8 maggio 2025.

[14] F. Moser, “Opposition’s Knesset dispersal bill fails after Edelstein, haredim reach draft bill agreement”, The Jerusalem Post, 12 giugno 2025.

[15] A. Shapira, “The “Norwegian Law”: Problematic, Yes – But a Necessary Evil”, The Israel Democracy Institute, 21 novembre

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2022.

[16] J. Franklin, “The Moral Question of Exempting Haredi from Military Service”, The Times of Israel, 7 febbraio 2025.

[17] T. Hermann et al.,Flash Survey: 70% of Israelis Support the Decision to Attack Iran| Segmentation Shows Strong Support Among Jewish Israelis (82%) While Most Arab Israelis Oppose the Operation (65%)”, The Israel Democracy Institute, 19 giugno 2025.

[18]Poll: Netanyahu’s Likud Gains Ground, His Coalition Remains Short of Knesset Majority”, Haaretz, 25 giugno 2025.

[19]Operation Rising Lion: War Dashboard”, Institute for National Security Studies, 25 giugno 2025.

[20] M. Koplow, “October 7 Changed Israel’s Calculus”, The Atlantic, 13 giugno 2025.

[21] P. Pahlavi, “The Limits of Deterrence: Iran’s Proxy Power Wanes as Geopolitical Stakes Rise”, Australian Institute of International Affairs, 17 ottobre 2025.

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[22] R. Mansour, H. Al-Shakeri e H. Haid, “The shape-shifting ‘axis of resistance’. How Iran and its networks adapt to external pressures”, Chatham House, 12 maggio 2025.

[23] D. Livermore, “By fusing intelligence and special operations, Israel’s strikes on Iran are a lesson in strategic surprise”,

Atlantic Council, 14 giugno 2025.

[24] M. Singh, “Iran Talks Are Still Necessary – Here’s What They Should Focus On”, The Washington Institute for Near East Policy, 1 luglio 2025.

[25] M. Ferragamo, “U.S., Israel Attack Iranian Nuclear Targets – Assessing the Damage”, Council of Foreign Relations, 25 giugno 2025.

[26] E. Hagedorn, “Trump’s Iran gambit leaves door open for nuclear talks”, Al-Monitor, 24 giugno 2025.

[27] Ibidem.

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[28] A. Bajec, “As Gaza burns, Abbas’s rebuke of Hamas is a deathblow for Palestinian unity”, The New Arab, 29 aprile 2025.

[29] Y. Tzoreff, “The Palestinian Authority’s Attempt to Resolve Its Rivalry with Hamas”, Institute for National Security Studies (INSS), 18 marzo 2025.

[30]Lebanon launches process to disarm Palestinian factions in refugee camps”, Al Jazeera, 23 maggio 2025.

[31] I.K. Harb, “The Prickly Issue of Disarming Palestinian Factions in Lebanon”, Arab Center Washington DC, 4 giugno 2025.



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