Negli ultimi quindici anni, il mercato italiano del private capital ha registrato una crescita significativa, evolvendosi e adattandosi alle esigenze di imprese che operano in un contesto in continuo cambiamento. Ai tradizionali comparti del private equity e del venture capital si sono affiancati strumenti come il private debt e gli investimenti infrastrutturali. Il 2024, in particolare, si è affermato come il secondo miglior anno di sempre, con investimenti complessivi pari a circa venti miliardi di euro. A livello di ammontare, la parte più consistente è andata al private equity e alle infrastrutture, mentre il venture capital si conferma come l’area con il maggior numero di operazioni. Il private debt, da parte sua, ha proseguito il percorso di crescita, raggiungendo i cinque miliardi.
Parallelamente a questa evoluzione, è aumentato anche il numero dei soci Aifi, oggi oltre 180, con caratteristiche eterogenee per attività, focus settoriale e geografico. Quindici operatori hanno esteso la propria operatività al private debt, diventando vere e proprie piattaforme multi-asset. È cresciuta anche la componente internazionale, che rappresenta circa un terzo del totale, pur rimanendo prevalente la presenza domestica, spesso con una dimensione contenuta: oltre la metà degli operatori gestisce infatti meno di 200 milioni di euro.
Questa dimensione ridotta riflette le caratteristiche del tessuto industriale italiano. Analizzando il private equity, il 66% delle società investite ha un fatturato inferiore ai 50 milioni di euro, con una concentrazione nella fascia tra 10 e 30 milioni. Solo una minoranza supera i 100 milioni. Complessivamente, oltre 500 Pmi hanno ricevuto 8,5 miliardi di euro negli ultimi cinque anni, con un picco nel 2022.
Anche nel private debt le Pmi giocano un ruolo centrale. Tra il 2020 e il 2024 quasi la metà delle operazioni ha riguardato queste imprese, per un totale di oltre 250 aziende e 3,4 miliardi di euro. Il 2024 si è rivelato un anno record, con quasi 1,5 miliardi investiti, a conferma della crescente consapevolezza da parte delle imprese dell’utilità di questo strumento.
Gli operatori domestici sono responsabili della maggior parte delle operazioni: oltre il 70% sia nel private equity che nel private debt. Tuttavia, in termini di ammontare, nel private debt prevalgono gli operatori pan europei, che rappresentano il 70% dei capitali investiti.
Gli operatori internazionali, mediamente più grandi, impegnano capitali più consistenti per singola operazione: nel private equity la media è di 21 milioni, contro i 10 dei soggetti domestici. Gli operatori americani investono in media 28 milioni, quelli anglosassoni 21, mentre i francesi – molto attivi nel mid market – 15 milioni. Nel private debt, i fondi pan europei raggiungono una media di 17 milioni per operazione, contro i 3 milioni degli operatori domestici.
In conclusione, le Pmi costituiscono l’ossatura dell’economia italiana e un pilastro del mercato del private capital. Negli ultimi cinque anni, oltre 700 Pmi hanno attratto 12 miliardi di euro. Sebbene il mercato italiano sia ancora piccolo rispetto ad altri Paesi europei, ha dimostrato di poter contribuire in modo significativo allo sviluppo delle imprese.
Il private capital, infatti, non fornisce solo risorse finanziarie, ma anche competenze manageriali, supportando la crescita, l’internazionalizzazione, la trasparenza e la sostenibilità. Le aziende partecipate sono mediamente più innovative e meglio preparate ad affrontare le sfide della transizione ecologica e digitale. Inoltre, l’intervento del private capital favorisce la managerializzazione e il passaggio generazionale, contribuendo a una crescita superiore rispetto a quella delle imprese non partecipate, con effetti positivi sull’intera economia reale.
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