Le Sezioni Unite Civili della Cassazione, con la sentenza n. 19750/2025, depositata il 17 luglio (clicca qui per consultare il testo integrale della decisione), si sono pronunciate sulla seguente questione: la sorte dei crediti di una società dopo la sua cancellazione dal registro delle imprese, con riferimento a quelli non inclusi nel bilancio finale di liquidazione e oggetto di un giudizio ancora pendente. In particolare, la cancellazione determina l’estinzione dei crediti controversi? O questi si trasferiscono comunque ai soci, salvo prova di una rinuncia espressa o tacita? Per un approfondimento sulle soluzioni liquidatorie nei casi di crisi d’impresa, consigliamo il volume “Le tutele del nuovo sovraindebitamento. Come uscire dal debito”, acquistabile cliccando su Shop Maggioli o su Amazon.

Le tutele del nuovo sovraindebitamento. Come uscire dal debito
Aggiornato al terzo decreto correttivo del CCII (D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136), il volume, giunto alla sua II edizione, propone un’ampia ricognizione delle rilevanti novità normative e del panorama giurisprudenziale sul tema della crisi da sovraindebitamento. Sono raccolti diversi casi giudiziari riguardanti piani, omologati e non, ove emergono gli orientamenti dei vari fori e le problematiche applicative della normativa di riferimento. Il taglio pratico rende l’opera uno strumento utile per il professionista – gli organismi di composizione e i gestori della crisi, gli advisor e i liquidatori – al fine di offrire un supporto nelle criticità e i dubbi che possano sorgere nella predisposizione del Piano.
Monica Mandico
Avvocato cassazionista, Founder di Mandico&Partners. Gestore della crisi, curatore, liquidatore e amministratore giudiziario. È presidente di Assoadvisor e coordinatrice della Commissione COA Napoli “Sovrain- debitamento ed esdebitazione”. Già componente della Commissione per la nomina degli esperti indipendenti della composizione negoziata presso la CCIAA di Napoli. Esperta in crisi d’impresa e procedure di sovraindebitamento e presidente di enti di promozione sociale. Autrice di numerose pubblicazioni, dirige la Collana “Soluzioni per la gestione del debito” di Maggioli Editore, ed è docente di corsi di alta formazione e master accreditati presso Università e ordini professionali.
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Monica Mandico, 2025, Maggioli Editore
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Il caso
Una società a responsabilità limitata, poi cancellata dal Registro delle Imprese, e i suoi fideiussori agivano in giudizio contro una banca, per l’accertamento dell’illegittima applicazione di interessi su un conto corrente e la restituzione delle somme versate. In primo grado il Tribunale dichiarava cessata la materia del contendere nei confronti della società, considerata estinta, e rigettava le domande dei garanti, ritenuti privi di legittimazione. La Corte d’Appello, invece, riconosceva il diritto del socio unico a subentrare nella posizione della società, in quanto titolare dei crediti non indicati nel bilancio finale di liquidazione, e condannava la banca alla restituzione.
Contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’istituto bancario (nella forma di soggetto incorporante), contestando la legittimazione del socio e sostenendo, tra gli altri motivi, che la cancellazione della società avesse comportato una tacita rinuncia al credito, data la sua mancata iscrizione nel bilancio finale. La Prima Sezione Civile della Cassazione, rilevando un contrasto interpretativo sul tema, con l’ordinanza interlocutoria n. 16477/2024 (per la quale avevamo già proposto un approfondito commento), ha sollecitato l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite.
Il contrasto giurisprudenziale
La questione oggetto di contrasto giurisprudenziale riguardava, dunque, la possibilità di considerare la rinuncia tacita dei crediti di una società, non inclusi nel bilancio finale di liquidazione, come effetto automatico della cancellazione della stessa dal registro delle imprese, anche in pendenza di causa.
L’indirizzo originario: le Sezioni Unite del 2013
Le Sezioni Unite, con le sentenze gemelle n. 6070 e 6071 del 2013, hanno inaugurato l’orientamento secondo cui i crediti non compresi nel bilancio finale e non riscossi prima della cancellazione si considerano abbandonati. Questo filone giurisprudenziale ha letto nell’inerzia del liquidatore, che non promuove un’attività giudiziale o extragiudiziale per il recupero del credito, una rinuncia tacita, utile ad accelerare la chiusura della liquidazione. Di conseguenza, ha escluso che i soci potessero far valere diritti incerti o illiquidi in giudizio dopo l’estinzione dell’ente. Decisioni successive (Cass. n. 25974/2015; n. 23269/2016; n. 15782/2016) hanno rafforzato questa lettura, ritenendo che la mera pendenza di un giudizio non basti a trasferire la pretesa in capo agli ex soci.
Le prime aperture: la rinuncia non si presume, va provata
Dal 2020, alcune pronunce hanno iniziato a smontare questo automatismo. In particolare, la Corte di Cassazione, con le sentenze n. 9464/2020 e n. 30075/2020, ha affermato che la cancellazione della società non estingue automaticamente le pretese azionate in giudizio. Ha chiarito che la rinuncia al credito richiede una volontà inequivoca e una comunicazione al debitore. In mancanza, il credito si trasferisce ai soci, anche se non risulta iscritto in bilancio. Tali decisioni hanno ribaltato l’assetto originario, introducendo una presunzione di sopravvivenza della pretesa: chi eccepisce la rinuncia deve provarla, non viceversa.
I richiami all’indirizzo formalista: automatismo con correttivi probatori
Nonostante queste aperture, alcune sezioni della Corte hanno continuato a difendere la tesi della rinuncia implicita. Sentenze come Cass. n. 24246/2023 e n. 11411/2024 hanno ribadito che i soci non possono far valere pretese non incluse nel bilancio finale, a meno che non dimostrino di averle effettivamente ereditate dalla società. In questa prospettiva, la qualità di ex socio non basta: occorre provare di essere succeduti nella titolarità del credito e che non vi sia stata rinuncia. Si rafforza così una visione formalistica che subordina la sopravvivenza della pretesa a rigidi requisiti probatori.
Le critiche dell’ordinanza: incongruenze sistematiche e rischi applicativi
La Prima Sezione Civile della Cassazione, nel segnalare il contrasto, ha messo in luce le contraddizioni dell’indirizzo tradizionale. In particolare:
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a) ha rilevato l’incompatibilità tra il presunto limite all’iscrivibilità dei crediti incerti e il principio contabile dell’art. 2426 c.c., che impone l’iscrizione al valore presumibile di realizzo anche per i crediti illiquidi;
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b) ha contestato la forzatura logica di equiparare la cancellazione dal registro a una rinuncia, anche quando la società abbia agito in giudizio per accertare quel credito;
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c) ha evidenziato il rischio concreto di pregiudicare i creditori sociali, privandoli di risorse potenzialmente recuperabili a causa di una scelta liquidatoria che non li coinvolge.
Secondo il Collegio rimettente, queste criticità impongono un riequilibrio: la cancellazione non può produrre automaticamente effetti estintivi, né sul piano sostanziale né su quello processuale. Piuttosto, spetta al debitore dimostrare la volontà di remissione, nei termini richiesti dall’art. 1236 c.c.
Due modelli alternativi
Da questo quadro emerge una netta alternativa tra due modelli opposti:
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l’uno presume l’estinzione del credito non iscritto e impone al socio di provarne la sopravvivenza;
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l’altro presume la continuità della pretesa azionata e sposta sul debitore l’onere di provare l’avvenuta rinuncia.
La Prima Sezione Civile, in definitiva, ha ritenuto che solo un intervento delle Sezioni Unite potesse risolvere il contrasto, offrendo un criterio certo per stabilire chi succede nei crediti controversi dopo la cancellazione della società e quali condizioni devono ricorrere perché si possa parlare davvero di rinuncia.
La qualificazione successoria come presupposto acquisito
Le Sezioni Unite, nel risolvere il contrasto interpretativo, non mettono in discussione la qualificazione della cancellazione della società come fatto idoneo a determinare un fenomeno successorio. Tale qualificazione, ormai stabilmente accolta nella giurisprudenza di legittimità, rappresenta il fondamento condiviso da entrambe le tesi emerse nel tempo. Le stesse Sezioni Unite, in pronunce precedenti (nn. 29812/2024 e 3625/2025), hanno riaffermato che l’estinzione della società comporta la trasmissione ai soci dei rapporti obbligatori non definiti, chiarendo al contempo l’ultrattività della procura processuale conferita prima della cancellazione e l’onere dell’Amministrazione finanziaria di provare l’avvenuta riscossione da parte dei soci nei confronti dell’Erario.
La questione centrale: la presunzione di rinuncia e l’onere della prova
Il cuore della decisione riguarda la sorte dei crediti non iscritti nel bilancio finale di liquidazione. La Corte respinge l’idea che il semplice silenzio del liquidatore, ossia la mancata inclusione del credito in bilancio, basti a presumere una rinuncia da parte della società. Afferma con decisione che la remissione del debito, ai sensi dell’art. 1236 c.c., è un negozio unilaterale abdicativo e recettizio, che richiede tre presupposti essenziali: la volontà inequivoca di rinunciare, la manifestazione esplicita o concludente di tale volontà e la comunicazione al debitore.
Le Sezioni Unite sottolineano che nessuno di questi requisiti può ritenersi soddisfatto per il solo fatto che il credito non compaia nel bilancio di liquidazione, poiché l’atto contabile non è diretto a uno specifico creditore, né equivale a una dichiarazione di rinuncia consapevole.
Il rigetto del meccanismo presuntivo e le critiche all’orientamento formalista
La Cassazione prende nettamente le distanze dalla tesi che vorrebbe fondare la presunzione di rinuncia sull’omessa iscrizione in bilancio. Evidenzia che tale approccio non poggia su argomentazioni strutturate, ma si limita a richiamare le sentenze del 2013, senza approfondire le condizioni della remissione previste dal codice civile. Al contrario, il diritto vivente richiede rigore: chi sostiene che un credito si sia estinto per rinuncia deve dimostrarlo, con prova puntuale di tutti gli elementi della fattispecie.
La Corte, inoltre, chiarisce che molte delle sentenze apparentemente aderenti alla presunzione di estinzione (come Cass. n. 24246/2023 e n. 11411/2024) in realtà si riferiscono a casi differenti, in cui si discute della posizione passiva degli ex soci rispetto a crediti di terzi, e non della legittimazione attiva a proseguire giudizi creditori della società.
Le obiezioni sistematiche: incertezza, tutela dei creditori e limiti contabili
La Corte raccoglie e valorizza le critiche mosse dalla dottrina al modello presuntivo. In primo luogo, segnala l’evidente incertezza definitoria insita nelle espressioni «mere pretese», «diritti incerti» o «diritti illiquidi», che sfuggono a una qualificazione univoca. In secondo luogo, riconosce che i principi contabili impediscono l’iscrizione in bilancio di poste aleatorie, fondate su eventi futuri e incerti, le cosiddette “attività potenziali”: non si può, quindi, pretendere l’iscrizione di pretese giuridicamente dubbie, per poi imputare la mancata registrazione a una rinuncia tacita.
Infine, il Collegio solleva una questione di equità sostanziale: se si ammette che il credito non iscritto si estingue, si espongono i creditori sociali a un pregiudizio ingiusto, privandoli di ogni strumento di controllo o reazione, dal momento che non possono impugnare il bilancio finale né ottenere informazioni su crediti sopravvenuti in capo ai soci.
L’onere della prova spetta a chi eccepisce l’estinzione
Alla luce di queste considerazioni, le Sezioni Unite affermano un principio chiaro: è il convenuto, cioè il soggetto contro il quale l’ex socio agisce per conto della società estinta, a dover dimostrare l’eventuale estinzione del credito. Deve allegare e provare una rinuncia valida, consapevole, inequivocabile, indirizzata proprio a lui. Non basta dimostrare che il credito non risultava iscritto in bilancio.
Si afferma così un’impostazione coerente con i principi civilistici della remissione del debito, che valorizza la continuità del diritto e attribuisce all’inattività significato neutro, non abdicativo.
Il principio di diritto enunciato
Concludendo la motivazione, le Sezioni Unite fissano il principio di diritto destinato a orientare la giurisprudenza futura:
«L’estinzione della società, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non comporta anche l’estinzione dei crediti della stessa, i quali costituiscono oggetto di trasferimento in favore dei soci, salvo che il creditore abbia inequivocamente manifestato, anche attraverso un comportamento concludente, la volontà di rimettere il debito, comunicandola al debitore, e sempre che quest’ultimo non abbia dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare: a tal fine, non risulta tuttavia sufficiente la mancata iscrizione del credito nel bilancio di liquidazione, la quale non giustifica di per sé la presunzione dell’avvenuta rinunzia allo stesso, incombendo al debitore convenuto in giudizio dall’ex-socio, o nei confronti del quale quest’ultimo intenda proseguire un giudizio promosso dalla società, l’onere di allegare e provare la sussistenza dei presupposti necessari per l’estinzione del credito».
La Suprema Corte rigetta i primi due motivi del ricorso principale, ritenendoli infondati proprio alla luce del principio enunciato, e rinvia la causa alla Prima Sezione civile per l’esame del terzo motivo di ricorso e del ricorso incidentale.
Conclusioni
Le Sezioni Unite, escludendo che la mancata inclusione del credito nel bilancio finale integri di per sé una rinuncia tacita, riaffermano la natura recettizia e volontaria della remissione del debito, nonché l’operatività del fenomeno successorio in favore dei soci. L’estinzione della società non comporta la cessazione automatica delle situazioni attive non definite, e l’onere della prova dell’intervenuta rinuncia grava su chi eccepisce l’estinzione del credito. Si consolida così un approccio conforme ai principi civilistici e sistematicamente idoneo a garantire certezza giuridica e tutela delle situazioni soggettive coinvolte.
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