Una maxi inchiesta della Guardia di Finanza, coordinata dalla Procura della Repubblica di Treviso, ha portato alla luce una complessa rete criminale composta da 11 imprenditori, accusati a vario titolo di truffa aggravata ai danni dello Stato, bancarotta fraudolenta e autoriciclaggio. Per uno di loro, un imprenditore padovano considerato il promotore del sodalizio, sono scattati gli arresti domiciliari. L’importo indebitamente sottratto alle casse pubbliche ammonta a 1,7 milioni di euro.
Il meccanismo della frode: aziende acquisite e condotte al fallimento
L’uomo finito agli arresti, già noto alle forze dell’ordine per reati finanziari e associativi, avrebbe messo in piedi un sistema ben rodato: acquisiva aziende in difficoltà, svuotandole degli attivi con operazioni contabili e finanziarie fittizie, per poi portarle al fallimento. I fondi distratti venivano utilizzati per acquisire nuove società, in un ciclo continuo di inganni e operazioni speculative.
Tra i metodi usati per giustificare i movimenti di denaro tra le aziende, anche la creazione ad hoc di falsi “contratti di rete”, dietro ai quali si celavano finanziamenti fittizi e flussi di denaro senza alcuna giustificazione economica reale.
Il business del “falso rilancio”
Le indagini hanno svelato anche una colossale truffa ai danni di SIMEST S.p.A., società pubblica che finanzia l’internazionalizzazione delle imprese italiane. Il principale indagato, fingendosi “business angel” di aziende in crisi, ha diretto in modo occulto due imprese trevigiane ottenendo finanziamenti per progetti mai realizzati.
I fondi sarebbero dovuti servire per portare i marchi italiani nei mercati di Kuwait e Albania, attraverso fiere internazionali e iniziative di promozione. Tuttavia, i dipendenti non hanno mai viaggiato né partecipato ad alcuna attività promossa, come hanno confermato in fase di interrogatorio.
Anche i dati di bilancio presentati per ottenere i fondi risultavano manipolati o del tutto falsi, rendendo il quadro ancora più grave.
Perquisizioni e sequestro dei fondi: il danno all’economia reale
Dopo approfondite verifiche contabili e finanziarie, le Fiamme Gialle hanno scoperto che i fondi pubblici non sono mai stati utilizzati per le finalità dichiarate, ma reinvestiti per fini illeciti o intascati personalmente dagli indagati.
Le due aziende coinvolte, svuotate delle loro risorse, sono finite in liquidazione giudiziale, con la perdita dei posti di lavoro per 56 dipendenti.
«Si tratta di una frode gravissima – sottolineano gli investigatori – che non solo colpisce le casse pubbliche, ma danneggia l’intero tessuto produttivo e mina la fiducia nell’economia legale».
Una rete estesa e ben organizzata
La rete messa in piedi dall’imprenditore padovano si estendeva a sei società “satellite”, tutte usate per far transitare capitali sospetti, alterare i bilanci e ottenere nuove fonti di finanziamento. L’obiettivo? Accumulare liquidità per futuri “colpi”, come dichiarato dallo stesso indagato, che parlava di “fare musina” per proseguire le sue attività speculative.
La Guardia di Finanza: «Difendere la legalità economica è un dovere»
L’operazione condotta dalla Guardia di Finanza si inserisce in un’azione di contrasto più ampia volta a tutelare la spesa pubblica, difendere i contribuenti onesti e impedire che fondi destinati alla crescita vengano sottratti con raggiri.
“La lotta agli sprechi e alle frodi – spiegano i vertici delle Fiamme Gialle – è essenziale per garantire che ogni euro pubblico si traduca in benefici reali per i cittadini”.
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