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Opinioni | Onestà e sviluppo insieme: si può


L’onesta è sacra. Anche Milano è sacra. Lo sviluppo senza legalità è un inganno e una trappola, una casa senza finestre. La legalità senza fare niente è il circolo del bridge, gioco antico e nobile: tutti perbene e rigorosamente seduti. Le inchieste si rispettano e le norme si seguono sempre, chi non lo fa va indagato e (se colpevole) condannato. Buttare la croce su tutta Milano e i suoi talenti, sulla porta italiana verso il mondo, è una rivalsa politica (o personale o campanilistica) che vale poco e forse nulla: un danno all’intero Paese. Che da qui resta agganciato all’Europa e al futuro.
Sono passati 40 anni. Esatti. Marco Mignani inventò lo spot di un amaro, nel 1985, dove erano tutti eleganti, felici, operativi: «Milano da bere». La condanna degli slogan riusciti è che diventano il proprio opposto. Tangentopoli, dal 1992 in poi, ne fece una parodia brutale: vedi un po’ cosa si nascondeva sotto i sorrisi e gli aperitivi. Ci ha messo tanto, la città, per riemergere. Con sindaci di centrodestra e centrosinistra, da Gabriele Albertini in poi: divisi su alcune cose, uniti da un’idea di crescita e fiducia. Nel vero bipolarismo del nostro tempo, chiusura/apertura, Milano ha scelto in ogni momento l’apertura.

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Altrimenti non avrebbe otto atenei, 220 mila studenti universitari, il design più brillante del pianeta, il 20 per cento delle start up italiane. Una metropoli leggera come abitanti, appena un milione e 300 mila, e pesante come valore imprenditoriale e culturale.
L’Expo del 1881 segnò l’inizio dell’epoca industriale. Per Milano e quindi per il Paese. Con settemila espositori, un milione di visitatori, i marchi Pirelli, Ansaldo, Campari, Cinzano. L’Esposizione del 1906 portò 225 nuove costruzioni e più di 5 milioni di persone: Milano, e quindi l’Italia, entrarono nella modernità. Nel 1910 il futurista Umberto Boccioni inventò un dipinto-manifesto, «La città che sale»: è esposto al Moma, a New York, con i pezzi pregiati della nostra creatività, un omaggio a Milano e quindi all’Italia. L’Expo del 2015, sospinta da Letizia Moratti, Romano Prodi, Matteo Renzi, Giuliano Pisapia, Beppe Sala, persone molto (molto) distanti con lo stesso obiettivo, l’ha consacrata come città-mondo: i capitali arrivati dall’estero, i grattacieli dove c’era il deserto urbano, cinque linee del metrò e una che arriva fino a Linate, le accuse feroci alla sanità e mezz’Italia che vuole curarsi qui.
Una metropoli di successo. E poi. Poi si è rotto qualcosa. Nella narrazione, certo: dal trionfalismo (troppo) al pessimismo (troppo). Nella sostanza, anche: dalla città delle opportunità al rischio della città premium, se pago tanto ci posso vivere. Nella visione delle famiglie: dal mito del reddito al rifugio della rendita. Nelle attività personali: dal culto del lavoro mobile ai record del bene immobile. Nell’equilibrio generale: il ceto medio in difficoltà e 31 hotel a cinque stelle. Nell’urbanistica, soprattutto: leggi poco chiare, interpretazioni diverse, forzature quasi lecite o illecite da verificare. Fino al pasticcio del «Salva-Milano» (che nome bizzarro per una città che aiuta l’Italia da quando è nata): chiesto dal sindaco di centrosinistra, accettato dal centrodestra, modificato dai Dem, poi affossato dai Cinque Stelle e da mezzo Pd. E fino all’inchiesta di questi giorni: le richieste di arresto, un’ombra antica che ritorna, la parola «corruzione» nelle carte, un modello di sviluppo che finisce (pesantemente) sotto esame.




















































Errori o reati di singoli? Un «sistema» intero di illeciti? Un gruppo di persone che ha reso Milano attrattiva e scintillante ma ha anche violato le regole? In una Nazione di commissari tecnici e di giudici, val la pena aspettare i magistrati e gli eventuali processi. O almeno, tra pochi giorni, gli interrogatori. Nel frattempo tocca alla politica. Tocca al sindaco Sala e ai suoi assessori: con spiegazioni chiare, nette, in grado di scacciare i dubbi. Tocca alla sinistra, che governa Milano, e al centrodestra, che chiede le dimissioni della giunta, perché da una parte e dall’altra sarebbe adesso sensato (e utile) raccontare qual è l’idea di città. Risposta sbagliata: due anni di campagna elettorale con il garantismo a fasi alterne. Risposta possibile: dire che i reati sono reati, ma la crescita non è un delitto, il nuovo skyline è un vanto dell’Italia, i grattacieli (nelle regole) sono l’architettura del nostro tempo. Solo una minoranza, pare, li abbatterebbe per rimetterci le giostre abbandonate.

Il rischio, come sempre, è il frullatore. Mettere assieme la legalità sacrosanta con le polemiche politiche di parte, scambiare il progresso con il malaffare. E sarebbe, invece, l’ora di una discussione vera, profonda, pacata, come qualcuno nella società sta già facendo: una sorta di grande occasione civile. Quale Milano si vuole. Come tenere unite la crescita e l’inclusione sociale. Perché bisogna attrarre i migliori manager e allo stesso tempo occuparsi dei fragili e dei redditi più bassi, come sanno i 180 mila volontari che aiutano i quartieri. L’anima di Milano è correre e salire, sempre, ci mancherebbe: ma con tanti partecipanti. Fissare i traguardi per l’Italia e trovare il modo per andare su in gruppo. Il problema non è aver costruito i grattacieli, ma aver dimenticato gli ascensori.

17 luglio 2025 ( modifica il 18 luglio 2025 | 08:53)

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