I dazi fanno male. Fanno male anche quando non si vedono. Anche quando non sono ancora stati approvati del tutto. Anche quando i tavoli negoziali UE-USA sono ancora aperti. Perché il solo annuncio di nuove barriere commerciali – e la lentezza esasperante con cui l’Unione affronta il tema – basta a generare incertezza. E l’incertezza, nel mondo dell’impresa, vale come un freno a mano tirato.
Nel Canavese, la ferita si apre proprio lì, all’incrocio tra il mercato globale e le economie locali. L’ultima indagine congiunturale di Confindustria Canavese, relativa al terzo trimestre 2025, fotografa senza mezzi termini il prezzo che le imprese stanno pagando. Un crollo netto della produzione e degli ordini, una redditività in picchiata, una crescente difficoltà a reggere il colpo della competizione globale, mentre i costi delle materie prime e dei trasporti continuano a salire e il mercato estero si fa sempre più ostico.
Il saldo tra ottimisti e pessimisti è eloquente: -12,8 sia per la produzione che per i nuovi ordini. Numeri rossi anche per la redditività (-6,9) e per l’export (-6,1). Persino l’occupazione – che in genere resiste più a lungo – scivola a -2,6. Intanto cresce il ricorso alla cassa integrazione guadagni: un’impresa su sei, il 16%, prevede di utilizzarla. Un dato in crescita rispetto al trimestre precedente.
E se tutto questo accade d’estate – quando normalmente le aziende rallentano per ferie e chiusure programmate – il rischio è che l’autunno porti un peggioramento ulteriore. Anche perché il panorama globale è tutto fuorché rassicurante: alle tensioni commerciali si somma la crisi nel Mar Rosso, le fluttuazioni dei mercati energetici, e il persistente disallineamento fra politiche industriali europee e realtà locali.
Paolo Conta, presidente di Confindustria Canavese, lo dice chiaramente, senza gridare ma neanche girarci intorno.
“Il 2025 si sta confermando come un anno piuttosto difficile per l’economia del territorio. Le imprese stanno attraversando una delicata fase di transizione, ma mostrano anche segnali di vitalità, specie nei servizi. Molto dipenderà da cosa accadrà nei prossimi mesi sul fronte delle crisi internazionali e dalla capacità delle imprese di investire e aprirsi a nuovi mercati”.
Già, i servizi. Unica vera luce in fondo al tunnel. In controtendenza rispetto all’industria, le imprese dei servizi segnano un andamento positivo, soprattutto per quanto riguarda redditività e occupazione. E questo significa che laddove c’è più flessibilità, più prossimità al territorio e meno dipendenza da filiere complesse, la resilienza funziona.
Ma il cuore del tessuto produttivo canavesano resta manifatturiero. E lì il problema è strutturale. Il 76% di utilizzo medio degli impianti è un dato stabile, ma racconta anche di margini sempre più stretti. Le imprese restano aperte, ma lavorano meno. Sopravvivono, ma non crescono. E a rendere il quadro più cupo si aggiungono i ritardi negli incassi (in peggioramento per il 26,3% degli intervistati), e la fiammata dei costi: +32,9% per le materie prime, +33,8% per la logistica e i trasporti. L’energia per ora tiene: 57,5% la considera stabile. Ma per quanto ancora?
A fronte di tutto questo, la vera notizia è che le imprese non si arrendono. Il 24% prevede investimenti significativi nei prossimi 12 mesi. Il 46,7% punta su interventi marginali. Un dato che, seppur inferiore alle medie dei tempi d’oro, rappresenta una scelta di coraggio. Investire ora, in un contesto simile, è un atto di fiducia. O di necessità.
Ma una domanda sorge spontanea: può bastare? Può la sola volontà delle imprese invertire una rotta che sembra segnata da fattori esterni, geopolitici, macroeconomici, perfino ideologici? La transizione elettrica nel settore mobilità, ad esempio, viene vissuta più come una forzatura che come una vera opportunità. Il sistema si sta adeguando, certo, ma il tempo stringe. E le regole cambiano in corsa.
Ecco perché il ruolo delle associazioni di categoria, delle istituzioni locali e delle politiche regionali diventa cruciale. Serve un accompagnamento vero, non pacche sulle spalle. Servono incentivi veri, formazione seria, politiche fiscali coerenti. E soprattutto, serve che l’Europa e l’Italia tornino a difendere l’industria, quella vera, fatta di persone, fabbriche, camion che partono la mattina e bollette da pagare.
Oggi il Canavese sembra sospeso. Ha la testa bassa, ma non si è fermato. Continua a produrre, a innovare, a cercare commesse. Ma cammina su un filo. E se la prossima crisi internazionale – o il prossimo dazio, o la prossima stretta normativa – sarà quella fatale, nessuno potrà dire: non lo sapevamo.
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