Da qualche settimana una parte della politica locale immagina di trasformare l’area industriale di Vibo Marina in un nuovo polo turistico. Oltre le dichiarazioni altisonanti, centinaia di dipendenti di Meridionale Petroli avvertono un pericolo concreto: vedere cancellata l’economia reale che sostenta le loro famiglie e una filiera strategica per l’intera Calabria.
La voce dimenticata dei lavoratori
«Siamo madri, padri, giovani tecnici e impiegati», si presentano i dipendenti, rivendicando con orgoglio la loro identità di comunità operosa. Ogni mattina entrano nello stabilimento con la consapevolezza di far procedere un ingranaggio essenziale: il rifornimento di carburante di cui dipendono servizi d’emergenza, trasporti pubblici, forze dell’ordine e migliaia di automobilisti. Quell’impegno quotidiano, fatto di turni notturni, competenze specialistiche e rigorosi protocolli di sicurezza, è diventato per loro un patto di responsabilità verso l’intera regione. Ma oggi, accusano, un racconto politico brillante e superficiale minaccia di dissolvere quel patto senza neppure ascoltare chi lo onora da anni.
In una lettera redatta con il sostegno delle rappresentanze sindacali, gli addetti di Meridionale Petroli spiegano che l’economia di carta non può sostituire quella delle tute blu. La narrazione della “rinascita turistica” evoca fotografie patinate, ma ignora la concretezza di buste paga, contributi e forniture energetiche, scrivono. Dietro quelle immagini, ricordano, ci sono magazzinieri, autisti, analisti di laboratorio, manutentori navali; donne e uomini che hanno trasformato l’area industriale in un capitale di conoscenze e reddito. Cancellare quella realtà senza una rotta certa significa, a loro avviso, alimentare precarietà sociale e spopolamento.
Le ombre di una riconversione senza fondamenta
Gran parte del dibattito pubblico ruota intorno a concetti seducenti quali «nuova vocazione» o «riconversione green». Gli operai, però, non vedono la bozza di un piano, né tabelle che quantifichino investimenti, tempi, impatti occupazionali. Vibo Marina non è, sostengono, un terreno incolto da ridisegnare a piacimento, bensì un sito industriale monitorato, dotato di certificazioni ambientali, impegnato in controlli di sicurezza che garantiscono standard elevati. Smantellare prima di progettare equivale a giocare a dadi con il presente di un’intera comunità, denunciano con lucidità.
Nella loro analisi, i lavoratori evidenziano un rischio macroscopico: oltre il 60 per cento del carburante che alimenta la Calabria transita ogni anno attraverso i pontili e i serbatoi dell’azienda. Interrompere questo flusso senza predisporre infrastrutture alternative significherebbe rallentare la risposta dei mezzi di soccorso, complicare la logistica delle pubbliche amministrazioni, aumentare i costi di distribuzione per imprese e consumatori. Una scelta del genere, puntualizzano, avrebbe perciò effetti non solo occupazionali ma anche sull’efficienza dei servizi essenziali, con ricadute immediate sull’economia locale.
Tra numeri mancanti e illusioni di carta
Gli addetti chiedono, senza giri di parole, che vengano resi pubblici studi di fattibilità, proiezioni economiche, stime sull’occupazione post‐riconversione. Finora, lamentano, non c’è traccia di analisi comparative capaci di dimostrare che un resort, un marina o una qualunque iniziativa turistica possa assicurare gli stessi livelli di stabilità salariale, gettito fiscale e continuità operativa garantiti dall’impianto petrolifero. Il silenzio dei dati, ribadiscono, pesa quanto un verdetto: non si può chiedere a centinaia di famiglie di fidarsi di ipotesi ancora alla fase del bozzetto.
Oltre al lavoro diretto, l’indotto coinvolge autotrasportatori, officine meccaniche, imprese di vigilanza, laboratori di analisi e decine di piccole aziende che traggono introiti dall’esistenza del polo energetico. Chi sostituirà queste commesse? Quali percorsi di riconversione professionale verranno offerti a tecnici specializzati in processi di stoccaggio, analisi chimica e manutenzione di condotte? Gli interessati non hanno ricevuto risposte, né sono stati convocati a un tavolo tecnico. Meridionale Petroli, ricordano, versa ogni anno imposte significative agli enti locali: gettito che finora ha finanziato servizi pubblici essenziali.
Il peso del silenzio istituzionale
I sindacati denunciano una mancanza di concertazione che definiscono «inaccettabile». Decisioni annunciate in conferenza stampa avrebbero dovuto, a loro giudizio, passare prima per un confronto aperto con le parti sociali. Una transizione giusta non si proclama: si costruisce insieme, ribadiscono. L’assenza di inviti ufficiali, di verbali di riunione, di un crono‐programma condiviso alimenta la sensazione di essere spettatori in un processo che invece inciderà sulla loro quotidianità in modo dirompente. Il risultato è un clima di sfiducia che rischia di radicalizzarsi.
Dal canto loro, i lavoratori affermano di sentirsi traditi da chi dovrebbe rappresentarli nelle istituzioni. Le parole «sviluppo sostenibile» suonano vuote se non vengono accompagnate da salvaguardia occupazionale e prospettive certe. Non chiediamo privilegi, spiegano, «ma il diritto di non essere espulsi dal mercato del lavoro per una scommessa ancora indefinita». Per questo annunciano iniziative in ogni sede possibile: assemblee pubbliche, ricorsi, campagne di sensibilizzazione. Vogliono garantire che il tema non scivoli nell’oblio mentre altrove si scelgono i protagonisti di un futuro che, temono, potrebbe non includerli.
Una chiamata al confronto, non allo scontro
Pur nella durezza del loro appello, i dipendenti di Meridionale Petroli non chiudono la porta al cambiamento. Riconoscono che il territorio deve evolversi, ma pretendono che la trasformazione sia frutto di dialogo, dati trasparenti e garanzie concrete. Invitano pertanto amministratori regionali, enti locali e potenziali investitori ad aprire un tavolo tecnico in tempi rapidi, con la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori e delle comunità coinvolte. Solo così, sostengono, si potrà valutare se esistano soluzioni in grado di integrare turismo e attività industriale.
L’economia reale non è un interruttore da spegnere a piacere, ricordano in chiusura. Il diritto alle aspirazioni turistiche, spiegano, non può prevalere su quello alla dignità del lavoro, alla sicurezza energetica e alla coesione sociale. Per questo ribadiscono la necessità di un percorso che salvaguardi le competenze esistenti, magari valorizzandole in nuovi segmenti produttivi, ma senza spingere nell’incertezza chi, da decenni, tiene in piedi un’infrastruttura vitale per l’intera Calabria. È un appello alla responsabilità collettiva, più che una resa dei conti.
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