268 morti e oltre 60 feriti: è questo il tragico bilancio della catastrofe della Val di Stava, una delle peggiori tragedie industriali nella storia italiana del dopoguerra. Erano le 12:22 del 19 luglio 1985 quando, in meno di sette minuti, una colata di fango travolse la valle sopra Tesero, in Trentino. Il sole d’estate lasciò spazio all’orrore: una valanga di detriti si abbatté sul fondovalle, cancellando case, alberghi, ponti. Famiglie intere furono annientate, bambini in vacanza con i genitori morirono sotto tonnellate di fango.
La causa non fu il destino, ma una catena di negligenze e scelte irresponsabili. Sopra l’abitato di Stava, a oltre duemila metri di quota, si trovavano due bacini di decantazione della miniera di fluorite di Prestavèl. Servivano a raccogliere i fanghi residui della lavorazione mineraria: una materia apparentemente inerte, una miscela di acqua e polveri sottili. Ma quei bacini, costruiti l’uno sopra l’altro su un pendio instabile, rappresentavano una bomba a orologeria.
Il bacino superiore, cresciuto con metodi costruttivi inadeguati, privi di fondamenta solide e con scarichi mal progettati, collassò improvvisamente. La massa di fango precipitò nel bacino inferiore, che non riuscì a reggere l’urto e cedette a sua volta. Una colata di circa 180.000 metri cubi di fango si riversò a valle a una velocità stimata di 90 chilometri orari, spazzando via tutto ciò che incontrava. In meno di dieci minuti, l’intera vallata fu sommersa da una marea di detriti alti fino a 10 metri.
268 persone persero la vita: turisti, residenti, operai, albergatori. Oltre 60 furono feriti, molti in modo grave. Il disastro lasciò dietro di sé un paesaggio irriconoscibile e un dolore incancellabile. “Sembrava un’esplosione, poi il buio e il silenzio”, diranno i sopravvissuti. Le ricerche durarono giorni, i soccorritori lavorarono senza sosta, mentre l’Italia intera assisteva sgomenta a una tragedia che si sarebbe potuta evitare.
Le successive indagini giudiziarie confermarono ciò che era evidente: non fu un disastro naturale, ma una strage causata dall’uomo. I bacini non erano stati progettati secondo criteri di sicurezza adeguati. I controlli furono insufficienti, le perizie ignorate, le segnalazioni di pericolo sottovalutate. Nel 1989 si aprì il processo penale a Trento: 23 persone furono rinviate a giudizio tra dirigenti della società mineraria, tecnici e funzionari pubblici.
Le sentenze confermarono le responsabilità: il disastro era evitabile. Nel 1992, nove imputati furono condannati in via definitiva per disastro colposo e omicidio colposo plurimo. Ma le pene, pur confermando la colpa, furono miti: la maggior parte dei reati risultò prescritta o fu coperta da indulti. Alcuni condannati non scontarono mai un giorno di carcere. Le famiglie delle vittime parlarono di giustizia incompiuta.
La vicenda giudiziaria si trascinò anche sul piano civile. Le cause per il risarcimento dei danni durarono anni. Nel 2000, lo Stato fu condannato in via definitiva a risarcire i parenti delle vittime per non aver esercitato un’adeguata vigilanza. Ma il senso di frustrazione non si cancellò: “Non cercavamo vendetta, volevamo solo che fosse riconosciuta la verità”, disse il presidente dell’associazione dei familiari.
Oggi, dove un tempo sorgevano i bacini, c’è solo il silenzio delle montagne. A fondovalle, un monumento e il Centro di documentazione di Stava conservano la memoria della tragedia. Ogni anno, il 19 luglio, la comunità si ritrova per una cerimonia semplice, intensa, a cui partecipano anche tanti giovani: perché la memoria non è solo un dovere, ma un impegno verso il futuro.
Stava è divenuto il simbolo di ciò che accade quando la sicurezza viene sacrificata sull’altare del profitto. Un disastro che racconta di una ferita ancora aperta, di ferite individuali e collettive, ma anche di una lezione che non può e non deve essere dimenticata. Perché la montagna, ferita, ha parlato. E il suo grido chiede ancora oggi rispetto, giustizia, memoria.
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