«Ho una laurea in Filosofia, lavoravo in un’azienda. Non era un posto interessante, non mi sentivo stimolato. Così, quando hanno chiuso, ho colto l’opportunità per investire su me stesso. Oggi sono informatico, mi occupo di ambienti cloud e faccio formazione». Massimo Abbate, libero professionista, è uno dei tre under 30 ai quali abbiamo chiesto di commentare la ricerca dell’Osservatorio di ManpowerGroup World of Work for Generation Z in 2025 sui desideri e le aspettative dei giovani che stanno entrando, o sono già entrati, nel mondo del lavoro.
Giovani che saranno sempre più presenti: nel 2030, infatti, un terzo delle persone nelle aziende sarà nato tra il 1996 e il 2012. Ma già ora, la loro richiesta di cambiamento si fa sentire. Il dato forse più eclatante dell’indagine è che quasi la metà degli Zoomers dice che lascerà il proprio lavoro nel giro di sei mesi, anche senza la certezza di riuscire a trovarne un altro in linea con le proprie esigenze.
Quawtar El Rhorfy si trova bene nella società di consulenza che l’ha assunta come analista in comunicazione e innovazione, ma conferma che «c’è molto malcontento, lo vedo tra i miei amici, non si sentono compresi e non vedono opportunità di crescita professionale. Le aziende tradizionali sono cristallizzate, rispondono a esigenze vecchie».
Nel 2030, un terzo delle persone in azienda sarà nato tra il 1996 e il 2012 (Getty Images).
Aurora Caporossi, imprenditrice, parte dalla sua esperienza personale: lavorava nelle criptovalute, ma durante la pandemia ha deciso di cambiare vita per occuparsi di anoressia nervosa, una malattia di cui aveva sofferto. Oggi ha una start up, comestai, e una non profit, Animenta, entrambe sui disturbi alimentari.«Credo nelle imprese che possono generare profitti ma anche prendersi cura delle persone» dice. Non sempre è facile trovarle. «Faccio da consulente in una multinazionale vecchio stampo» continua. «Nessun giovane vorrebbe lavorarci, e infatti hanno un problema di turn over, non c’è ricambio. Lo schema è molto piramidale, l’organizzazione macchinosa, i tempi di attuazione sono lunghi».
Gen Z e lavoro: dev’essere appagante
Commenta Anna Gionfriddo, amministratrice delegata di ManpowerGroup Italia: «Questa generazione sta cominciando a lavorare in un contesto difficile, di grande instabilità politica e di trasformazione digitale. Eppure, i ragazzi hanno le idee chiare. Cercano un lavoro appagante, con attenzione al singolo. Vogliono che l’azienda si fermi ad ascoltare e costruisca un percorso personalizzato. Altrimenti se ne vanno, tanto sanno che nel giro di qualche mese un altro impiego lo trovano. Mi piace la loro ricerca di equilibrio e non è vero che non vogliono il posto fisso. In un mondo instabile cercano la stabilità ma deve corrispondere ai loro valori. Il posto dev’essere quello giusto».
L’insoddisfazione emerge anche dai dati: il coinvolgimento dei giovani talenti nel contesto lavorativo è calato dal 40 per cento nel 2020 al 35 nel 2024. Il 57 per cento degli Zoomers italiani dichiara inoltre un elevato livello di stress nel lavoro quotidiano.
Ai manager servono nuove strategie
Aggiunge Ferdinando Toscano, ricercatore in Psicologia del lavoro all’Università della Campania Luigi Vanvitelli: «Per la Gen Z lo stare al lavoro deve sposare quello che hanno dentro, deve avere un senso. E questo senso va costruito. Non si può chiedere solo di svolgere una mansione, lo svolgimento dev’essere parte di una storia. Se si lavora a un progetto sulla riduzione delle emissioni, bisogna dire: lo stai facendo perché questa cosa si incrocia con quello in cui credi. Non ci si accontenta di quello che si trova, ci sono delle priorità».
Aurora Caporossi è un esempio: ha creato la sua start up per una causa che le sta a cuore e vuole generare valore su qualcosa in cui crede. I suoi 8 collaboratori condividono questo obiettivo. Più spesso, però, sogni e speranze della Gen Z si infrangono contro organizzazioni irrigidite in strutture gerarchiche. I team delle Risorse Umane sono di frequente inadeguati: «Pensano che qualunque cambiamento sarebbe una perdita di tempo e quindi una diminuzione del profitto» è il parere di Aurora. Non a caso, il 43 per cento dei giovani ritiene che la leadership aziendale dovrebbe essere più disponibile nei loro confronti.
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«C’è una mancata corrispondenza tra le loro aspettative e quelle dei datori di lavoro» sostiene Anna Gionfriddo. «I giovani guardano all’etica dell’azienda, se rispetta l’inclusione e la diversità, se è attenta alla sostenibilità. Il capo deve avere una leadership empatica, coinvolgente. La distanza è colmabile, ma le aziende devono rivedere alcuni processi, comunicare in modo diverso». C’è chi lo fa: secondo la ricerca, le imprese italiane stanno mettendo in campo nuove strategie per trattenere la Gen Z, intervenendo sulle tecnologie (37 per cento), sul benessere in ufficio (sempre 37), sulla flessibilità (22), sulla crescita professionale (28) e su salari più elevati (22).
«I manager dovrebbero mettersi in discussione», continua Gionfriddo, «e cercare nuove strategie per trattenere i giovani. In Manpower stiamo sperimentando con successo il reverse mentoring: mettiamo un giovane forte dal punto di vista digitale a far da mentore a un Boomer. I giovani si sentono valorizzati, i Boomer imparano». Meglio non insistere sugli straordinari: «Non sono disposti a farli. Per loro, alle 17.30-18 inizia una nuova parte della giornata. Il lavoro non dev’essere totalizzante».
Gen Z e lavoro: smart sì, ma non a tempo pieno
Intanto, però, la mancanza di dialogo fa scappare i talenti: «Se non so perché sto attuando una certa soluzione, non capisco perché quella soluzione è meglio di un’altra» dice Massimo. Aggiunge Quawtar: «Per fortuna, dove sono non c’è una struttura piramidale ma trasversale, e non mi sento mai sola perché capisco che stiamo facendo insieme ogni progetto. Se invece il lavoro mi venisse presentato come un pacchetto, devi fare questo perché conviene e basta, me ne andrei». I bisogni sono psicologici, sottolinea Toscano: «I giovani non si sentono costretti a restare in un posto per portare il pane a casa. Spesso sono single, l’investimento è su di sé. Sono individualisti, anche nei valori».
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Un aspetto importante è la possibilità dello smart working e la flessibilità, anche se qui le richieste stanno cambiando: «Dopo il Covid volevano lavorare sempre da remoto» spiega Anna Gionfriddo.«Adesso hanno capito che essere presenti significa interfacciarsi coi colleghi, imparare, sentirsi parte di un team. Smart sì, ma non sempre».
Nella start up di Arianna si lavora per obiettivi: «Non c’è obbligo di venire in ufficio tutti i giorni, la leadership è orizzontale, ognuno ha una sua responsabilità. Quel che conta è arrivare al risultato». Aggiunge Massimo: «In alcune aziende se non resti più del dovuto pensano che non ci tieni, ma non è così. Voglio avere una vita personale che mi permetta di riposarmi. Sto creando la mia famiglia, sto comprando casa, e siccome sono autonomo e lavoro in smart ho bisogno di prendere aria ogni tanto». Conclude Quawtar: «La vita privata è quel che avviene quando spegni il computer. Avere del tempo per sé è molto importante».
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