di Giuseppe Gagliano –
Il governo giapponese ha inviato un messaggio chiaro, seppur scomodo, alle proprie aziende operanti a Taiwan: in caso di invasione cinese non potranno contare su un intervento di Tokyo per evacuare il personale. Dietro questa posizione c’è un intreccio di vincoli costituzionali, assenza di relazioni diplomatiche con Taipei e la consapevolezza che la Cina non concederebbe alcuna autorizzazione all’azione delle Forze di Autodifesa giapponesi su un territorio che considera parte integrante del proprio spazio sovrano.
Le parole dei funzionari giapponesi, “Dal nostro punto di vista non esiste un governo a Taiwan”, hanno avuto un effetto immediato sugli investimenti diretti esteri giapponesi nell’isola, tradizionalmente tra le prime fonti di capitali per Taipei. Nel 2023, gli IDE nipponici sono crollati del 27%, passando da 1,7 miliardi di dollari nel 2022 a soli 452 milioni. In netto contrasto, nello stesso periodo gli investimenti americani e britannici sono aumentati, segno che la postura di Tokyo sta già ridisegnando le dinamiche economiche nel cuore dell’Asia orientale.
Dietro i numeri emerge un clima di incertezza per le circa 3mila aziende giapponesi presenti a Taiwan, molte delle quali attive in settori strategici come quello dei semiconduttori. Queste imprese, preoccupate dall’assenza di un ombrello protettivo giapponese, hanno iniziato ad organizzare esercitazioni private di evacuazione e piani di emergenza, ben consapevoli che in uno scenario di conflitto il supporto governativo sarebbe inesistente.
Questa situazione evidenzia una vulnerabilità strutturale: il Giappone, pur essendo una delle economie più avanzate e un alleato chiave degli Stati Uniti, è vincolato da una Costituzione pacifista che limita severamente l’uso della forza militare all’esterno. Un’eventuale crisi a Taiwan potrebbe così rivelarsi un banco di prova per la dottrina di sicurezza nipponica, spingendo Tokyo a ridefinire i propri strumenti di intervento in aree di interesse strategico.
Sul piano militare, l’assenza di un intervento giapponese significherebbe lasciare agli Stati Uniti e ai loro alleati la gestione di un’eventuale evacuazione di massa e delle operazioni di contenimento in caso di attacco cinese. Ma è proprio questo scenario che spaventa le aziende giapponesi: in una guerra lampo o in un blocco navale cinese, le vie di fuga potrebbero chiudersi in poche ore, rendendo qualsiasi piano di evacuazione privato o governativo estremamente difficile da attuare.
Geopoliticamente la posizione del Giappone riflette una tensione tra la sua alleanza con Washington e la necessità di evitare uno scontro diretto con Pechino. La Cina è il principale partner commerciale di Tokyo, e il governo giapponese teme che un atteggiamento troppo interventista possa scatenare rappresaglie economiche devastanti per un’economia già colpita dall’instabilità globale e dalla competizione per le risorse tecnologiche.
Sul piano geoeconomico, la ritirata parziale delle aziende giapponesi rischia di lasciare spazio a capitali provenienti da Paesi più aggressivi sul fronte taiwanese, come Stati Uniti e Regno Unito. Ma questo processo non è privo di contraddizioni: se da un lato Tokyo arretra per cautela, dall’altro la sua dipendenza dalle forniture di semiconduttori taiwanesi rende l’isola una priorità strategica per la sicurezza economica del Giappone stesso.
Il messaggio del governo giapponese suona dunque come un campanello d’allarme: le aziende dovranno affrontare da sole una potenziale crisi a Taiwan, in un contesto regionale dove la guerra ibrida tra economia, tecnologia e militare sta già riscrivendo le regole del gioco.
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