L’intervista
«Una serie di scelte legislative recenti, a partire dall’abrogazione dell’abuso d’ufficio, hanno indebolito le garanzie sull’imparzialità dell’amministrazione e ridotto gli anticorpi contro i tanti “furbetti” che vogliono approfittarne».
Giuseppe Busia, presidente dell’Anac, Autorità nazionale anticorruzione, parte dalla maxi inchiesta di Milano per una riflessione su quanto stiano aumentando i rischi corruttivi e il connesso pericolo di perdita di denaropubblico e di credibilità delle istituzioni.
Presidente Busia, ripartono le grandi inchieste sulla corruzione e, come ai tempi di Tangentopoli, è la procura di Milano a dare il via?
«Di fronte a questa, come per tutte le inchieste giudiziarie, occorre, da un lato, lasciar lavorare la magistratura in piena serenità e senza ingerenze. E, dall’altro, assicurare a tutte le persone coinvolte la presunzione d’innocenza ed il diritto di difendersi senza essere esposte ad una gogna pubblica».
Tuttavia, è ovvio che un caso tanto rilevante sia oggi al centro del dibattito politico.
«La politica, più che dividersi fra colpevolisti e innocentisti in questa vicenda specifica, dovrebbe interrogarsi su quali misure abbiamo per evitare che casi quali quelli ipotizzati dalla procura possano verificarsi a Milano o altrove, e se stiamo facendo abbastanza per rendere più difficile che qualcuno possa usare gli incarichi pubblici per trarre vantaggi personali a danno della collettività».
E da questo punto di vista, qual è la lezione che viene dall’inchiesta di Milano?
«Purtroppo, quello che appare è un quadro di garanzie che si va indebolendo: basti pensare all’abrogazione dell’abuso d’ufficio».
Come si inserisce in questo contesto?
«Tale reato puniva anche i casi in cui il dirigente o il politico, pur essendo in conflitto di interessi, non lo dichiarava e partecipava ad un procedimento o a una votazione invece di astenersi. Prima ancora di dover andare a verificare se la decisione assunta sia stata la conseguenza di un beneficio ricevuto come, per esempio di una consulenza più o meno fittizia, il fatto stesso di avere avuto un qualunque rapporto professionale con una impresa, escludeva quel dirigente o funzionario dalla possibilità di prendere parte al processo decisionale».
Con l’abolizione dell’abuso d’ufficio, però, questa condotta non viene più sanzionata penalmente.
«È sanzionata solo dal punto di vista amministrativo e la strada è tutta in salita. Innanzi tutto, occorre presentare ricorso, sopportandone i costi. Inoltre bisogna farlo in tempi molto stretti. Infine possono farlo solo i soggetti più direttamente interessati, mentre manca, a differenza del penale, la tutela che viene da chi agisce in nome della collettività».
Via libera ai “furbetti”?
«Diciamo che ora è più facile che i furbetti abbiano la meglio e in questo caso a pagare sono le imprese oneste. E naturalmente anche i cittadini che patiscono scelte fatte a vantaggio di pochi, invece che della collettività».
Le regole sul conflitto di interessi valgono almeno quando si assegnano gli appalti?
«Anche su questo, purtroppo, il nuovo codice dei contratti ha fatto passi indietro, e richiede che a dimostrare il conflitto di interessi sia chi lo lamenta e non l’amministrazione, che dovrebbe invece assicurare l’imparzialità del suo agire».
Dopo l’abolizione dell’abuso d’ufficio, il governo aveva detto che avrebbe rafforzato le tutele amministrative. È stato fatto?
«No. Semmai sono stati fatti dei passi indietro: si sono ridotte le tutele nei casi di passaggio da un incarico ad un altro o di svolgimento di più incarichi contemporaneamente».
Giancarlo Tancredi, coinvolto nell’inchiesta di Milano, prima era dirigente comunale poi è diventato assessore.
«Sì, ma nel passaggio si è messo correttamente in aspettativa, per evitare di svolgere due funzioni incompatibili. Oggi, a seguito di una legge dello scorso maggio, è venuta meno l’incompatibilità. Un dirigente del comune può essere nominato assessore e continuare a fare il dirigente».
Quali conseguenze?
«Non c’è più distinzione tra controllore e controllato. L’assessore che deve sovraintendere e dare indirizzi al dirigente, sovraintende se stesso».
E quando le cariche riguardano le partecipate?
«Sino a poco tempo fa assessori e consiglieri comunali dovevano aspettare due anni per essere nominati presidenti o nel cda di una partecipata. Adesso la giunta può deliberare la creazione di una società in house e nominare ai vertici uno dei suoi componenti. La politica rischia di diventare uno strumento per procacciarsi incarichi nelle amministrazioni che si governano».
Il passaggio alle imprese di cui un amministratore pubblico si è occupato, è consentito?
«Prima il limite era di tre anni, ma una legge approvata nei mesi scorsi ha ridotto il tempo a un anno per tutti gli organi collegiali della pubblica amministrazione».
È preoccupato o sbaglio?
«Riducendo le tutele amministrative, i comportamenti opportunistici diventano più probabili. Si è tolta la tutela penale, si sono ridotti i presidi amministrativi, bisognerebbe almeno investire sulla trasparenza».
L’inchiesta di Milano racconta di incontri con importanti gruppi della finanza e di sviluppo immobiliare.
«È per questo che torno a ribadire che è necessaria una disciplina sulle lobby, che gli organi internazionali sollecitano da tempo».
Di che tipo?
«Gli incontri che si sarebbero realizzati, le possibili frequentazioni o anche l’esistenza stessa delle interlocuzioni non sono da condannare di per sé, ma devono essere trasparenti».
Anche in questo caso, però, la scelta sarebbe del decisore pubblico.
«Oltre a rendere pubblici gli incontri, occorrerebbe che tutti i portatori di interessi avessero la possibilità di far pervenire le proprie proposte, e che queste fossero pubblicate in modo da renderle facilmente confrontabili. Spetterà naturalmente al decisore pubblico scegliere, ma così i cittadini vedranno in modo chiaro chi ha favorito e perché».
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