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Dazi Usa: l’Ue ha un’alternativa?


Parigi – A prescindere dalla questione Taco (Trump always chickens out, tradotto: “Trump fa sempre marcia indietro”), quindi indipendentemente dal fatto che il presidente degli Stati Uniti tenga o meno fede al suo proclamo di applicare dazi al 30 per cento sulle importazioni di beni provenienti dall’Unione europea a partire dall’1 agosto 2025, occorre rilevare che gli Usa detengono un disavanzo commerciale che ammonta a più di $200 miliardi verso l’Ue. Se il saldo delle partite correnti pende nettamente verso il blocco europeo, la componente della bilancia dei pagamenti, metrica complessiva che aggrega le transazioni transfrontaliere in entrata e in uscita da ciascun Paese, a favore degli Usa inerisce allo scambio di servizi, ovvero flussi di attività intangibili che includono consulenze, servizi di intermediazione finanziaria, creditizia e bancaria, oltre a servizi professionali, quali consulenze legali e sviluppo di software.

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Fino a prova contraria, l’ambizioso obiettivo alla base della strategia protezionistica di Trump sarebbe quello di rendere più competitivo il tessuto produttivo domestico e orientare i consumi degli americani verso beni prodotti dalle imprese statunitensi, sperando di incrementarne la competitività facendo in modo di tutelarle da buona parte della concorrenza con imprese straniere tramite misure tariffarie sulle merci importate. Progetto che, se mai realizzato, trasformerebbe la principale economia del mondo e, fino a oggi, bastione del neoliberismo, in un’isola di protezionismo nel mondo industrializzato, autosufficiente e orientata a uno sviluppo sostenuto da consumi interni che possano alimentare i profitti (markup) delle imprese domestiche.

Proprio perché colmare un gap nel saldo commerciale pari a centinaia di miliardi di dollari è un obiettivo ambizioso perseguibile solo nel medio-lungo termine, il che implica che il Vecchio continente continuerà verosimilmente a realizzare ancora a lungo avanzi commerciali nei confronti del suo principale partner commerciale anche con l’eventuale applicazione dei dazi, lo strumento più efficace disponibile nella ‘cassetta degli attrezzi’ delle autorità di bilancio dell’Ue, ossia Commissione europea e governi degli Stati membri, non sono i controdazi, come quelli reciproci con gli Usa o più mirati su acciaio e alluminio che l’Ue ha in programma di adottare qualora non riuscisse a siglare un accordo commerciale con gli Usa dai termini accettabili tramite i negoziati, quanto, piuttosto, controlli sui flussi di capitale.

Infatti, secondo la definizione data dalla Banca mondiale sul suo ottimo dataset, il conto finanziario netto corrisponde all’inverso della somma dei bilanci registrati sul saldo delle partite correnti e sul conto capitale, il che implica che un Paese che registra disavanzi commerciali con altri Paesi partner deve necessariamente finanziarli, al fine di riequilibrare la bilancia dei pagamenti con l’estero, tramite avanzi sul conto delle transazioni finanziarie, ovvero investendo in asset quali azioni e obbligazioni estere oppure approfittando di regimi fiscali favorevoli, come per esempio Irlanda, Cipro e Lussemburgo nel contesto Ue, per rendere operative branche e filiali di società domestiche che realizzino profitti in Paesi che applicano basse imposte sui redditi societari, o comunque nessuna aliquota sul patrimonio netto delle società a seguito dell’adozione della Global Minimum Tax del 15%, per poi trasferire questi capitali indietro alla casa madre. Stando a dati del Fondo monetario internazionale, il saldo finanziario bilaterale Ue-Usa alla voce investimenti diretti esteri è pressocché in equilibrio, laddove l’Ue registrava un surplus nel conto di investimenti finanziari di $70 miliardi nel 2023, un’inezia rispetto alle proporzioni del suo gap commerciale con gli Usa. Si tratta quindi di una distanza labile e facilmente colmabile, tanto che l’anno precedente (2022), erano gli Usa a essere in avanzo sulle transazioni finanziarie, ovvero a rivendicare una prevalenza di attività (assets) rispetto alle passività (liabilities) dovute ai Paesi oltreoceano, con un avanzo di circa $49 miliardi.

Sicuramente l’atteggiamento dell’Ue deve continuare a essere costruttivo e aperto al dialogo in questo scenario da guerra fredda commerciale, con lo scopo di assicurarsi un accordo più conveniente possibile. Tuttavia, i negoziatori dovrebbero essere mossi dalla consapevolezza che la deterrenza più credibile capace potenzialmente di far desistere Trump dai suoi propositi è rappresentata da due fattori: 1) quella fornita da una congiuntura di rinnovata turbolenza sui mercati finanziari, quindi dal rischio di una recessione globale, con la volatilità degli indici azionari tornata, qualche mese fa, a livelli comparabili agli anni a cui risalgono gli ultimi shock globali (2008 e 2020), specialmente a seguito del Liberation Day, 2 aprile 2025, giorno in cui il tycoon ha annunciato la propria strategia protezionistica basata sull’implementazione di imposte doganali, per poi reagire in modo contenuto all’ultimo annuncio dei dazi al 30 per cento sulle esportazioni dell’Ue verso gli Usa a partire dal prossimo primo agosto, probabilmente alla luce dello scetticismo delle borse sull’effettiva messa in atto, per lo meno in queste proporzioni, delle imposte tariffarie annunciate, perplessità sicuramente alimentata dai numerosi annunci e altrettante proroghe e inversioni di rotta da parte del Presidente Usa sulle politiche tariffarie; 2) l’Ue e gli Usa sono i maggiori partner commerciali l’uno dell’altro e il volume totale della loro bilancia dei pagamenti bilaterale, ossia il valore complessivo dei loro scambi di beni e servizi, ammonta a quasi €2 trilioni stando a dati ufficiali del Consiglio e della Commissione europea, rappresentando ben il 30 per cento del commercio mondiale di beni e servizi.

Questo secondo fattore è cruciale, in quanto implica che il blocco europeo, anche senza coalizzarsi con altre economie, sarebbe capace di arginare la nuova deriva protezionistica statunitense optando per i giusti strumenti. Se i controdazi sarebbero misure dall’efficacia limitata, in quanto la bilancia dei pagamenti, specialmente il saldo delle partite correnti (commercio), pende nettamente dalla parte dell’Ue, è sui servizi, investimenti e sui flussi di capitale che il saldo è molto più equilibrato, ed è su quella componente della bilancia dei pagamenti che l’Ue potrebbe davvero colpire il proprio partner commerciale. Date le dimensioni dello squilibrio delle partite correnti largamente a favore del Vecchio continente, l’Ue verosimilmente continuerà a registrare ancora a lungo surplus commerciali nei confronti degli Usa, quindi questi ultimi dovranno necessariamente continuare a finanziarli. Rispondere con controlli sui movimenti di capitale, intesi come limiti effettivi ai flussi o preventivi come l’introduzione di aliquote patrimoniali e l’innalzamento delle imposte sui profitti societari, potrebbe davvero inasprire le condizioni di finanziamento del debito esterno per il governo statunitense.

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Se a misure protezionistiche eventualmente in atto occorrerebbe rispondere con ritorsioni a loro volta protezionistiche, anche se, secondo la lettura alla base di questo articolo, necessariamente strategiche e mirate come controlli sui capitali più che simmetriche come i dazi compensativi, l’Ue dovrebbe anche adeguare la propria economia ad affrontare le sfide derivanti dal nuovo assetto commerciale globale, stipulando nuovi accordi commerciali con altri partner e cercando di dotarsi di una struttura economica più competitiva, quindi anche nelle esportazioni. Questo target può essere perseguito allentando i vincoli di bilancio che l’area-euro si autoinfligge sugli investimenti, specialmente investimenti pubblici con elevati moltiplicatori, anche in termini di produttività, quindi scorporando dal computo del disavanzo di bilancio nell’àmbito del quadro di regole del Patto di stabilità spese capitali, non certo correnti, quali fondi allocati su istruzione, ricerca e sviluppo e incentivi economici alle imprese per sbloccarne gli investimenti privati in capitale fisico e umano (innovazione, ammodernamento dei fattori di produzione e formazione dei lavoratori). Un’economia produttiva è meno vulnerabile e può anche far fronte molto più efficacemente ai dazi.



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