Per ogni dollaro speso in conto capitale – cioè spese per infrastrutture, impianti, tecnologie – dai fondi di investimento in asset petroliferi, di gas naturale o di carbone, solo 48 centesimi sono investiti in tecnologie a basse emissioni di carbonio. Lo rivela l’ultima analisi di Bloombergnef (Bnef) contenuta nel rapporto pubblicato lo scorso 11 giugno, l’Energy supply fund-enabled capex ratio (Esfr), in cui sono stati valutati quasi 70mila fondi attraverso l’introduzione di un nuovo parametro – l’Esfr – capace di misurare l’allineamento “climatico” dei portafogli.
Cosa ci dice l’Esfr
Su un totale di 204 miliardi di dollari di investimenti in conto capitale nel settore energetico, la media globale del rapporto tra investimenti in fonti pulite e fossili nei fondi di investimento si attesta appena a 0,48 a 1. Il dato, del 2024, è ben inferiore al rapporto di 1,1 a 1 rilevato da Bnef e dall’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) su scala globale – contando tutti i settori dell’economia -, e lontanissimo dal livello di 4,8 a 1, ritenuto il minimo necessario per avere qualche possibilità di contenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C, entro il 2030.
Dietro a tale divario si celano diversi fattori. Le grandi compagnie petrolifere e del gas continuano a essere parecchio presenti nei portafogli dei fondi comuni, a differenza di quelle impegnate nella transizione energetica che tendono a essere più piccole, e meno rappresentate nei principali indici finanziari e dunque meno accessibili.
Troppi fondi rivolti al fossile, specialmente in Usa
Questo metodo permette di fare un’ulteriore valutazione, quella sulle performance climatiche dei fondi in base alla posizione geografica o alla loro composizione. Ciò che emerge è che i fondi che replicano indici – quelli che investono nei titoli che compongono un indice azionario, con l’obiettivo di ottenere un rendimento simile a quello dell’indice stesso -, come l’S&P 500 statunitense, hanno un Esfr inferiore a 0,5 a 1. Come ovvio, fanno ancora peggio gli indici che sono storicamente focalizzati sul settore di gas, carbone e petrolio, come il Bloomberg world energy index, il cui rapporto crolla a 0,06 a 1.
In generale, i fondi di credito che investono in strumenti di debito – come obbligazioni, crediti fondiari, ecc. – mostrano performance migliori rispetto a quelli azionari, con un Esfr medio di 0,7 a 1 contro lo 0,4 a 1 dei secondi. Una forbice che continua ad ampliarsi a causa di dinamiche del mercato: da un lato, l’aumento dei prezzi di petrolio e gas a seguito della guerra in Ucraina, che ha rafforzato il peso dei titoli fossili nei fondi azionari; dall’altro, l’aumento dei tassi d’interesse e la concorrenza nel settore delle rinnovabili hanno penalizzato le valutazioni delle aziende attive nella transizione.
Una diversa dinamica si osserva poi nei fondi infrastrutturali – strumenti finanziari che investono in infrastrutture legate al settore dei trasporti, dell’energia, della comunicazione e dei servizi pubblici -, come quelli di Brookfield e Blackrock, che registrano un Esfr superiore di 1,2 a 1. Segno che, almeno in parte, il capitale privato infrastrutturale sta già giocando un ruolo chiave nella transizione.
Per quanto riguarda l’analisi regionale, per Bloomberg sono i fondi d’investimento europei ad avere il miglior rapporto, l’Esfr è infatti a 1,16 a 1 in favore dell’energia pulita. Ciò significa che per ogni dollaro investito nel fossile dai fondi, circa 1,16 sono andati alle rinnovabili. A seguire troviamo la Cina con un rapporto di 0,98 a 1, più indietro l’America latina (0,55), il nord America (0,42), l’Africa e il Medio oriente (0,38), e l’Asia pacifico (senza Cina), con appena 0,26 dollari per l’energia pulita ogni dollaro destinato al fossile. In termini monetari, però, sono le aziende nordamericane a raccogliere la maggior parte degli investimenti: i fondi hanno abilitato circa 150 miliardi di dollari di investimenti energetici negli Stati Uniti, pari al 70% del totale globale. Questo perché colossi petroliferi come Exxonmobil, tra le più grandi aziende quotate al mondo, attraggono enormi capitali: da sola ha rappresentato il 44% di tutti gli investimenti energetici abilitati dai fondi nel 2023. Diverso il caso cinese: l’impatto sui fondi delle aziende che investono – tanto – in energia resta limitato a causa della scarsa trasparenza e il forte controllo statale, elementi che rendono più difficile per gli investitori accedere a questi titoli. La Cina resta, tuttavia, leader negli investimenti solari abilitati dai fondi.
Infine, il Rapporto evidenzia un forte squilibrio tra Paesi ricchi e Paesi in via di sviluppo: i mercati ricchi hanno attratto cinque volte più capitali per l’energia rispetto a quelli emergenti, confermando che la transizione energetica globale procede a velocità troppo diverse.
Copertina: Unsplash
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