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Il valore delle parole: quanto contano le dichiarazioni non finanziarie *


Una riforma del 2016 permetteva alle microimprese di presentare un bilancio senza “nota integrativa”. L’intento era la semplificazione. Ma la riduzione della trasparenza ha avuto conseguenze inaspettate, compresa la perdita di opportunità di crescita.

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Cosa dice la letteratura economica sulla disclosure finanziaria e non finanziaria

La letteratura economica ha da tempo riconosciuto il ruolo della disclosure finanziaria nel ridurre le asimmetrie informative tra imprese e stakeholder esterni. Studi pionieristici di Christian Leuz e Robert E. Verrecchia e dei due stessi autori con Richard Lambert mostrano che una maggiore trasparenza può ridurre il costo del capitale. Lavori più recenti hanno iniziato a esaminare gli effetti della disclosure non finanziaria — come commenti gestionali, valutazioni qualitative e rendicontazione di sostenibilità — sugli esiti aziendali. Dan Dhaliwal, Oliver Zhen Li, Albert Tsang e Yong George Yang documentano che la rendicontazione volontaria è associata a un minore costo del capitale proprio, mentre Emirhan Ilhan, Philipp Krueger, Zacharias Sautner e Laura T. Starks rilevano che le informazioni ambientali attraggono una maggiore proprietà istituzionale. Brian Gibbons suggerisce che la rendicontazione obbligatoria su tematiche ambientali e sociali stimola innovazione e investimenti di lungo periodo, anche se Christian Leuz, Steven Vanhaverbeke e Matthias Breuer avvertono che regole più stringenti possono generare effetti indesiderati, come una concentrazione dell’innovazione nelle grandi imprese.

Nonostante il crescente interesse, la maggior parte degli studi esistenti è di tipo correlazionale o si basa su forti ipotesi identificative, focalizzandosi soprattutto su grandi imprese quotate. 

In un nostro recente studio, forniamo nuove evidenze causali sfruttando un quasi-esperimento naturale creato da una riforma italiana del 2016. La norma introdusse soglie dimensionali per l’accesso a un regime semplificato di bilancio che consentiva alle microimprese di omettere la nota integrativa, una sezione testuale del bilancio contenente strategie aziendali, voci di costo, attività di investimento e scelte contabili. Questo contesto istituzionale ci consente di identificare in modo credibile gli effetti della riduzione della disclosure testuale sul comportamento aziendale e di porci una domanda più ampia: la disclosure non finanziaria conta davvero, o è solo retorica?

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Quando “meno” non è “meglio”: i costi nascosti della semplificazione

Esaminiamo come le imprese hanno reagito alla possibilità di una rendicontazione semplificata confrontando aziende molto simili tra loro, ma che si trovavano appena al di sopra o al di sotto delle soglie di ammissibilità. Sebbene l’obiettivo della riforma fosse ridurre gli oneri amministrativi, non troviamo alcuna evidenza di risparmi di costo per le imprese esentate. Gli indicatori chiave, come il rapporto tra costi totali e vendite e le spese disaggregate per lavoro e servizi, rimangono statisticamente invariati rispetto alle imprese non eleggibili.

Gli effetti più evidenti della riforma non emergono nella struttura dei costi interni delle imprese, ma nelle loro relazioni esterne. Quelle che hanno adottato il bilancio delle microimprese (Mfbs) sono diventate significativamente meno propense a subire cambiamenti di proprietà negli anni successivi alla riforma; tuttavia, questo effetto negativo scompare nel lungo periodo. Il risultato è coerente con l’idea che il Mfbs rallenti, ma non elimini, il processo di acquisizione delle microimprese; le note integrative sono quindi in grado di ridurre, almeno nel breve periodo, la presenza di frizioni informative nel mercato azionario.

Figura 1 – Cambiamenti nella proprietà rispetto al 2015

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L’accesso al credito

Per quanto riguarda l’accesso al credito, l’adozione del Mfbs comporta un calo significativo e persistente della probabilità di avere almeno un prestito con una banca italiana (margine estensivo del credito). L’effetto è rilevante: un aumento di una deviazione standard nella probabilità di adottare il bilancio delle microimprese riduce la probabilità di avere almeno un rapporto bancario del 17 per cento nel 2019, corrispondenti a un terzo di una deviazione standard della variabile di esito nello stesso anno. Il risultato è determinato principalmente da una riduzione nell’accesso al credito da parte delle imprese che, prima della riforma, non avevano rapporti bancari, mentre la cessazione delle relazioni bancarie già esistenti non ne risulta influenzata.

Figura 2 – Probabilità di avere almeno un rapporto bancario

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Questo risultato è coerente con l’idea che le banche utilizzino le informazioni contenute nella rendicontazione non finanziaria delle imprese per valutarne l’affidabilità creditizia. In altre parole, una minore trasparenza da parte dell’impresa rende più difficile l’accesso al credito. Tuttavia, l’effetto non ha rilevanza se l’impresa possiede già una reputazione nel mercato del credito: l’adozione del Mfbs non ha un impatto significativo né sul numero di relazioni bancarie (a condizione che l’impresa abbia almeno una banca), né sull’ammontare di credito concesso (per le imprese che hanno effettivamente prestiti bancari).

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Chi non ha bisogno della burocrazia?

Perché alcune imprese dovrebbero adottare volontariamente un regime di rendicontazione che non comporta risparmi di costo misurabili e potrebbe limitare l’accesso al credito? Le nostre evidenze suggeriscono che l’adozione è stata più frequente tra imprese più anziane, più produttive, con una struttura proprietaria concentrata e attive in settori meno dipendenti da finanziamenti esterni: queste imprese potrebbero considerare la disclosure formale meno essenziale, facendo invece affidamento sulla reputazione consolidata o sulla capacità di autofinanziarsi.

Anche la geografia ha un ruolo: l’adozione del Mfbs è stata più frequente nelle province con una maggiore presenza di banche locali di piccole dimensioni, che tendono a valorizzare le informazioni qualitative e il credito basato sulle relazioni. Questo modello è coerente con l’idea che alcune imprese abbiano sostituito la trasparenza formale con la fiducia informale e le connessioni locali.

L’opacità può costare più della trasparenza

La riforma italiana del 2016, che ha permesso alle microimprese di presentare bilanci semplificati senza nota integrativa, non ha portato a una riduzione misurabile dei costi operativi. Tuttavia, riscontriamo che le imprese che hanno adottato il regime semplificato hanno sperimentato un minore accesso al credito bancario e tassi più bassi di cambiamenti nella proprietà. Questi effetti suggeriscono che le informazioni testuali svolgono un ruolo nell’attenuare le frizioni informative e nel sostenere le relazioni esterne, anche tra imprese piccole e non quotate.

Sebbene la riforma mirasse a ridurre gli oneri amministrativi, i nostri risultati indicano che il contenuto informativo della rendicontazione qualitativa può avere conseguenze economicamente significative. Riducendo la trasparenza, e quindi l’accesso a finanziamenti esterni e capitale di rischio, le imprese potrebbero perdere opportunità di crescita, limitando in ultima analisi il dinamismo dell’economia nel suo complesso. I decisori politici che valutano misure simili dovrebbero considerare non solo i costi diretti di conformità alla normativa, ma anche il ruolo della trasparenza nel sostenere l’attività d’impresa e la crescita economica.

* Le opinioni e le affermazioni espresse sono degli autori e non riflettono necessariamente quelle della Banca d’Italia. L’articolo è pubblicato in contemporanea su Vox-Eu.

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Antonio Accetturo


Economista presso il Dipartimento di Economia e statistica della Banca d’Italia. I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente l’economia regionale, l’economia pubblica e la valutazione delle politiche pubbliche.

Audinga Baltrunaite

puglisi Audinga Baltrunaite è ricercatrice presso il Servizio struttura economica della Banca d’Italia e Research Affiliate al CEPR. Ha conseguito la laurea in discipline economiche e sociali presso l’Università Bocconi nel 2009 e il dottorato in economia presso l’Università di Stoccolma, Institute for International Economic Studies, nel 2016. I suoi principali interessi di ricerca riguardano economia pubblica, corporate governance e economia di genere.

Gianmarco Cariola

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Gianmarco Cariola è economista ricercatore presso la Banca d’Italia. Prima di entrare alla Banca d’Italia nel 2022, ha lavorato presso le divisioni di ricerca e sviluppo economico dell’Organizzazione mondiale del commercio. Ha conseguito la laurea magistrale in economia presso la Scuola Superiore Sant’Anna e il dottorato in economia internazionale presso l’Istituto universitario di Ginevra. I suoi interessi di ricerca riguardano il commercio internazionale, la dinamica delle imprese e l’econometria applicata.

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Annalisa Frigo

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Annalisa Frigo è economista presso la Direzione dell’analisi economica strutturale della Banca d’Italia, nel quadro dell’unità giuridica ed economica. Dottoressa in economia (UCLouvain, Belgio). La sua ricerca si concentra sulla digitalizzazione della pubblica amministrazione e, più recentemente, sulla transizione verde.

Marco Gallo

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Marco Gallo ha conseguito una laurea magistrale in economia e finanza nel 1998 e un dottorato in economia nel 2002 presso l’Università di Napoli Federico II. Dal 1999 lavora come economista presso la Banca d’Italia e attualmente è all’unità di ricerca regionale a Roma. I suoi interessi di ricerca riguardano le banche e la finanza aziendale.



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