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Incentivi per le auto elettriche aziendali, senza un legame tra tasse ed emissioni si creano paradossi


di Esther Marchetti*

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Negli ultimi mesi, le auto cosiddette “aziendali” – tradizionalmente un tema riservato a una platea specialistica – sono finite sotto i riflettori, conquistando spazio sui media nazionali. A catalizzare l’attenzione è stata la riforma introdotta con la Legge di Bilancio 2025 sulla tassazione delle auto in fringe benefit, cioè i veicoli aziendali concessi ai dipendenti anche per uso privato, il cui valore concorre alla formazione del reddito imponibile, con vantaggi fiscali per lavoratori e imprese.

Come in molti altri Paesi, anche in Italia le auto aziendali godono di importanti agevolazioni. Quanto il governo Meloni ha normato non ha alcunché di straordinario: la riforma, salita agli onori delle cronache come una “mazzata”, si limita in realtà a rimodulare questi benefici, aumentandoli per le tecnologie meno emissive e riducendoli (in parte, e con qualche contraddizione) per quelle più inquinanti. Non a caso, la norma si inserisce tra le misure per ridurre i Sussidi Ambientalmente Dannosi (SAD), cioè quegli incentivi, diretti o indiretti, che favoriscono attività inquinanti.

Le agevolazioni alle auto aziendali inquinanti, tra i SAD, rappresentano una delle principali voci, per valore economico. Prima della riforma – secondo uno studio di Transport & Environment – generavano uno “sconto fiscale” che per l’Italia valeva 16 miliardi di euro l’anno, il più elevato in Europa. Le componenti principali riguardavano le esenzioni fiscali per i fringe benefit, ma includevano anche deducibilità del costo dei veicoli, detrazioni IVA e carte carburante.

Il nuovo sistema ha introdotto tre aliquote: 10% per le auto elettriche, 20% per le ibride plug-in, 50% per tutte le altre. In sostanza, il trattamento fiscale dipende dalla motorizzazione. E viene da chiedersi: ma che fine ha fatto la neutralità tecnologica? Come mai proprio l’Italia, alfiere di questa formula, disegna una riforma che invece di guardare all’effettivo impatto climatico ed ambientale si basa su cosa c’è sotto il cofano di un’automobile?

L’Italia si trova – insieme a Bulgaria e Slovacchia – tra i pochissimi Paesi europei in cui la tassazione dell’auto è indifferente al criterio emissivo. Ogni singola leva fiscale, applicata all’auto, è sostanzialmente sganciata dal computo della CO2.

L’intenzione che ha mosso la riforma sulle auto in fringe benefit è lodevole. Tuttavia, l’assenza di un legame diretto tra fiscalità ed emissioni climalteranti genera forti distorsioni: oggi, una Panda e una Porsche endotermiche sono tassate allo stesso modo. Peggio ancora, la nuova aliquota premia i SUV endotermici più inquinanti (oltre 190 g CO2/km) con uno sconto fiscale aggiuntivo rispetto alla precedente norma (-10%). Un paradosso che rischia di incentivare l’adozione di modelli a più alto impatto ambientale: per un SUV compatto di segmento C si può arrivare a pagare circa 250 euro in più all’anno rispetto a una berlina di lusso di segmento E! Questo, sebbene quest’ultima costi generalmente più del doppio e inquini molto di più. Una distorsione, questa, dannosa dal punto di vista climatico, ma anche iniqua sotto il profilo sociale.

Nonostante tali limiti, la direzione intrapresa con la riforma approvata mesi addietro è quella giusta. Modulare la fiscalità per premiare le tecnologie più efficienti e meno emissive è una prassi consolidata in Europa. Per allinearsi agli altri Paesi e ridurre ogni forma di incentivazione – diretta o indiretta – a consumi e tecnologie dannosi per il clima, però, è fondamentale che l’Italia prosegua adottando criteri fiscali basati sulle emissioni. Anche per evitare il rischio (sempre più concreto) che quello italiano diventi un mercato dell’auto di serie B, dove i carmakerpotranno vendere l’endotermico che trova (e troverà) sempre meno spazio negli altri Paesi europei.

Restare competitivi in termini di mercato è fondamentale anche per l’industria nazionale e per l’occupazione. Senza una chiara strategia di elettrificazione e politiche di innovazione, la crisi della produzione auto – cominciata ben prima dell’auto a batteria e mai tanto severa quanto in questi mesi – rischia di aggravarsi ulteriormente. Una recente ricerca di Scuola Sant’Anna e Centro Ricerche Enrico Fermi stima che il mancato passaggio alla mobilità elettrica, nel settore automotive italiano, potrebbe costare, tra il 2021 e il 2030, fino a 94.000 posti di lavoro, con un impatto sulla spesa per la cassa integrazione che potrebbe arrivare fino a 2 miliardi di dollari.

Serve, quindi, una revisione della fiscalità dell’auto e di quella aziendale in specie, da applicarsi solo al nuovo immatricolato e basata sulle emissioni, che favorisca l’adozione di veicoli zero emission e penalizzi quelli più inquinanti. Tale approccio dovrebbe prevedere aggiustamenti man mano che le auto elettriche diventeranno lo standard, così da garantire il giusto gettito fiscale.

Una chiara esortazione a procedere in questa direzione arriva anche dalla recente valutazione di Bruxelles dei Piani nazionali per l’energia e il clima dei 27 Paesi del blocco. Sul fronte dei trasporti, per l’Italia l’invito è esplicito: contrastare la dipendenza dai combustibili fossili favorendo la diffusione dei veicoli elettrici. E per riuscire nell’impresa: usare la leva fiscale, utilizzando il parametro emissivo come misura della tassazione. Altri Stati Membri lo hanno già fatto, e con successo. Ora è il nostro turno.

* Clean Transport Advocacy Manager, T&E Italia



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