Un filo che si chiude: dalla sentenza n. 183/2022 al “silenzio” referendario
La sentenza in commento si inserisce nel solco tracciato dalla precedente pronuncia n. 183/2022, con la quale la Corte costituzionale aveva già messo in discussione la disciplina applicabile ai lavoratori delle imprese con meno di 15 dipendenti. In quell’occasione, la Corte aveva ritenuto anacronistico il meccanismo di tutela previsto, osservando come il solo numero di occupati non fosse più un parametro adeguato per determinare l’entità delle tutele. Come affermato testualmente nella sentenza n. 183/2022: “in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli”
Pur evidenziando la potenziale lesione dei principi di uguaglianza e tutela del lavoro derivante dal tetto massimo di sei mensilità previsto dall’art. 9, c. 1, D.Lgs. 23/2015, la Corte nella sentenza 183/2022 non aveva però dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma, rimandando a un intervento legislativo correttivo.
Quel correttivo, tuttavia, non è arrivato, mentre il referendum abrogativo promosso pochi mesi fa, che avrebbe potuto modificare il regime speciale delle tutele crescenti, non ha raggiunto il quorum necessario, lasciando inalterato l’impianto normativo.
Di fronte a questa inattività parlamentare e al “silenzio” del corpo elettorale, la Corte è intervenuta direttamente in materia con la sentenza 118/2025, dichiarando l’illegittimità costituzionale del limite massimo di sei mensilità previsto, in caso di licenziamento illegittimo, per i datori di lavoro con meno di 15 dipendenti.
In un sol colpo, dunque, la Corte non solo ha “supplito” all’inerzia legislativa, ma anche rimediato al fallimento della tornata referendaria, riscrivendo l’art. 9 D.Lgs. 23/2015.
La sentenza 118/2025: cosa cambia
Il fulcro della pronuncia, come appena anticipato, concerne l’art. 9, c. 1, D.Lgs. 23/2015, che introduce un regime speciale di tutela per i rapporti di lavoro instaurati presso datori di lavoro che occupano meno di 15 dipendenti, prevedendo un’indennità risarcitoria dimezzata e sottoposta a un tetto massimo di sei mensilità (in linea, peraltro, con la disciplina prevista dall’art. 8 della Legge 604/1966 ed applicabile ai rapporti anteriori al 7 marzo 2015, che – è bene rimarcarlo – non solo non è oggetto della pronuncia di incostituzionalità, ma nemmeno viene richiamata in motivazione).
Secondo la Corte costituzionale, l’imposizione di un limite rigido e insuperabile di sei mensilità configurerebbe una liquidazione forfetizzata, priva della necessaria personalizzazione del danno, con conseguente lesione del principio di adeguatezza risarcitoria e del diritto alla tutela effettiva della dignità del lavoratore, garantita dall’art. 3 Cost. e dal principio di uguaglianza.
Ulteriore motivo di censura è rappresentato dall’esclusività del criterio quantitativo basato sul numero dei dipendenti, giudicato ormai superato e non idoneo a rappresentare la reale capacità economica del datore di lavoro e la sostenibilità del carico indennitario. Pertanto, la Corte – nel ribadire la necessità di un intervento legislativo correttivo (qui il pensiero corre veloce al “vecchio” rimedio risarcitorio previsto dall’art. 8 Legge 604/1966, che però – cosa davvero singolare – non è stato oggetto nemmeno di uno scialbo riferimento in sentenza…) – auspica l’inclusione di parametri integrativi, quali il fatturato o il totale di bilancio, conformemente agli orientamenti della normativa europea e nazionale, al fine di modulare la misura dell’indennizzo in modo più aderente alle specificità strutturali ed economiche delle singole imprese.
Un doppio binario nelle tutele: job property e risarcimenti potenziati
La recente sentenza 118/2025 si inserisce in un percorso giurisprudenziale ormai consolidato, che ha progressivamente rivisitato l’impianto normativo introdotto dal Jobs Act, segnando un netto ripensamento della disciplina dei licenziamenti illegittimi e addirittura mettendo in discussione principi e meccanismi di tutela ormai consolidati da decenni.
Da un lato, per le imprese con più di 15 dipendenti, la Corte costituzionale e la giurisprudenza di merito hanno in larga misura ripristinato, di fatto, il regime tradizionale della “job property”. Ciò significa che il lavoratore gode, di regola, del diritto al reintegro nel posto di lavoro o, in alternativa, di un risarcimento particolarmente ingente, rafforzando così le tutele contro licenziamenti ingiustificati.
Dall’altro lato, per le imprese con meno di 15 dipendenti (ma limitatamente ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in avanti) la Corte ha da oggi introdotto un regime di compensazione del danno economico fortemente potenziato, rimuovendo lo “storico” tetto massimo di sei mensilità e lasciando spazio a indennizzi che possono arrivare fino ad un massimo di 18 mensilità. Tale ampliamento degli importi risarcitori rappresenta una forma di tutela economica paradossalmente molto più severa rispetto al passato, con indennizzi potenzialmente triplicati rispetto al massimale precedente.
Questo doppio binario, con l’estensione della job property alle imprese più grandi e l’aumento del risarcimento per quelle più piccole, comporterà – è impossibile negarlo – un generale irrigidimento del regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi in tutto il sistema produttivo.
In particolare, l’aumento significativo dei cosiddetti “firing costs”, unitamente alla notoria difficoltà nel reperimento di personale qualificato, determinerà con alta probabilità un aggravamento delle criticità strutturali che già affliggono le piccole imprese che, come noto, sono quelle che più subiscono la concorrenza dei mercati esteri più “aggressivi”. Dall’altro lato, il rischio di dover sostenere oneri economici rilevanti in caso di contenziosi relativi ai licenziamenti, molto probabilmente, indurrà le imprese minori ad un atteggiamento più prudente nell’assunzione del personale, con conseguenti riflessi negativi sia sulla facilità di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, sia sulla loro capacità di sviluppo e sulla loro competitività sui mercati.
E i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015?
Un altro aspetto da non trascurare riguarda i lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del Jobs Act (7 marzo 2015), ai quali continuerà ad applicarsi la disciplina previgente, contenuta nella Legge n. 604/1966.
Sorprende, in questo senso, che la sentenza 118/2025 non contenga nemmeno un accenno all’art. 8 della legge del 1966, che istituisce un sistema sanzionatorio per molti versi analogo a quello censurato, pur fondandosi sullo stesso parametro dimensionale che la Corte ha ora giudicato non più idoneo a rappresentare la reale forza economica del datore di lavoro. Una simile omissione, probabilmente dettata dalla volontà di limitare l’ambito oggettivo della pronuncia, rischia tuttavia di aprire nuovi spazi di incertezza interpretativa, specie sul piano della coerenza sistematica delle tutele.
Non è da escludere, anzi, che – proprio alla luce della sentenza in commento – possa avviarsi un “confronto” anche su questo fronte, con un futuro intervento, legislativo o più probabilmente giurisprudenziale, volto ad armonizzare e aggiornare la disciplina risarcitoria per i licenziamenti illegittimi anche in riferimento ai lavoratori “storici”.
Nel frattempo, è lecito attendersi effetti distorsivi sul piano operativo: le imprese minori – in caso di perdite di commesse o riduzione di costi – saranno fortemente incentivate a risolvere i rapporti instaurati prima del 7 marzo 2015, in quanto soggetti a un regime sanzionatorio meno gravoso.
In altri termini, la coesistenza di due regimi sanzionatori così eterogenei rischia di condizionare le strategie d’impresa, inducendo i datori di lavoro a orientare le proprie decisioni più sulla base della data di assunzione che su effettive esigenze produttive o organizzative.
Ma non solo. Una simile situazione – ove protratta – potrebbe sollevare interrogativi di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 3 Costituzione, nella misura in cui finisce per introdurre, senza una ragionevole giustificazione, una disparità di trattamento tra lavoratori comparabili sotto il profilo funzionale e professionale, ma diversamente tutelati in caso di licenziamento illegittimo.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link