La Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 2 del DPR 30 maggio 1955, n. 797, che regola i casi di esclusione dal diritto agli assegni familiari (ANF).
In particolare, la questione era stata sollevata dalla Corte d’appello di Venezia, in relazione a un caso in cui una lavoratrice convivente “more uxorio” con il titolare di un’impresa individuale aveva percepito l’ANF per i figli comuni.
L’INPS aveva poi contestato tale fruizione, sostenendo che la convivenza con il datore di lavoro avrebbe dovuto impedire il riconoscimento della prestazione, al pari di quanto previsto per il coniuge del datore di lavoro, espressamente escluso dall’art. 2 del citato DPR.
Il giudice rimettente riteneva che l’attuale normativa determinasse un’ingiustificata disparità di trattamento tra coniugi e conviventi, con conseguente violazione degli articoli 3 e 38 della Costituzione.
La richiesta era, quindi, quella di estendere in via interpretativa o additiva il divieto di erogazione dell’assegno per il nucleo familiare, previsto per i coniugi, anche ai conviventi more uxorio del datore di lavoro.
2) La decisione della Corte costituzionale e conseguenze
1) Il quadro normativo e i rilievi della Corte
Il sistema degli assegni per il nucleo familiare è stato introdotto con l’art. 2 del decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69, convertito con modificazioni nella legge 13 maggio 1988, n. 153. Per quanto non disciplinato direttamente dal nuovo impianto normativo, resta applicabile il DPR n. 797/1955.
Quest’ultimo, all’art. 2, prevede che gli ANF non spettino, tra gli altri, al coniuge del datore di lavoro e ai suoi parenti conviventi entro il terzo grado. La ratio della norma è evitare che il datore possa beneficiare indirettamente della prestazione, autofinanziandola tramite conguagli contributivi.
Tuttavia, nella disciplina degli ANF, come chiarito anche da varie circolari INPS (tra cui la n. 84 del 2017), il convivente di fatto non è in linea generale considerato parte del nucleo familiare, dal punto di vista anagrafico, salvo che sia stato stipulato un contratto di convivenza ai sensi della legge 20 maggio 2016, n. 76. Di conseguenza, mentre la presenza del coniuge rientra automaticamente nella composizione del nucleo, lo stesso non accade per il convivente, che può esserne incluso solo in presenza di requisiti formali ulteriori.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 120/2025, ha chiarito che la disposizione impugnata non ha natura eccezionale ma speciale, e non può essere estesa in via analogica.
Inoltre, ha ribadito che non vi è una “identità di situazioni” tra matrimonio e convivenza di fatto, tale da giustificare l’estensione automatica delle clausole limitative degli ANF anche ai conviventi del datore di lavoro.
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2) La decisione della Corte costituzionale e conseguenze
Nel merito, la Corte ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale, sia rispetto all’art. 3 (principio di uguaglianza), sia all’art. 38 (diritto all’assistenza sociale) della Costituzione
L’esclusione del convivente dalla norma, infatti, non rappresenta, secondo i giudici, un trattamento discriminatorio, poiché si fonda su una differente configurazione giuridica dei rapporti familiari e patrimoniali. In particolare, va tenuto presente che la mancanza di un contratto di convivenza rende incerta la condivisione degli oneri economici, rendendo non assimilabili le due situazioni.
La Corte ha inoltre osservato che includere il convivente nel divieto previsto per i coniugi, senza estendere contemporaneamente anche gli altri diritti e doveri riconosciuti al matrimonio, introdurrebbe un’incongruenza nel sistema.
Sarebbe illogico, infatti, considerare la convivenza more uxorio solo per escludere l’assegno, senza riconoscerne il peso nella determinazione del diritto stesso alla prestazione.
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