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La burocrazia muta blocca la produttività: senza erogazione né interlocuzione le imprese restano sole


Articolo di Marco Travaglini, Presidente Centro Studi ProduttivItalia

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In Italia c’è un tema che pesa come un macigno sulla produttività delle imprese: i ritardi nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione. Un problema che conosciamo fin troppo bene, sia nei numeri che nell’esperienza quotidiana.

Secondo le stime, lo Stato italiano ha circa 50 miliardi di euro di debiti con le imprese, spesso dovuti a ritardi cronici nei pagamenti per appalti, forniture o contributi legati a misure di sostegno e sviluppo. Un paradosso se pensiamo che, allo stesso tempo, si chiede alle imprese di innovare, assumere, investire. Ma come si fa, se mancano liquidità e certezze?

Parlo con cognizione di causa: ho lavorato per anni a contatto con il Ministero dello Sviluppo Economico, Invitalia e molte finanziarie regionali che gestiscono fondi europei. Posso dirlo con chiarezza: la lentezza della filiera erogativa è una delle principali cause di freno alla capacità produttiva, soprattutto per le piccole e medie imprese del Mezzogiorno e per i settori più legati ai servizi.

Ma il punto vero non è solo la burocrazia. È l’assenza di una vera comunicazione operativa tra le parti. La maggior parte dei blocchi non nasce da norme complicate, ma da processi comunicativi inefficienti, arcaici, frammentati. Ancora oggi, la gestione delle pratiche avviene con scambi via PEC – che spesso si perdono, non vengono lette, restano sepolte tra migliaia di messaggi. I sistemi di upload/download sono lenti, superati o del tutto assenti.

Questo caos burocratico genera una giungla di telefonate, rincorse, solleciti, incomprensioni. Consulenti, imprenditori e funzionari passano le giornate a rincorrersi, senza strumenti adatti, con un danno enorme in termini di tempo, fiducia e risultati.

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E poi c’è il tema dell’incertezza. Il problema non è solo che si paga tardi. È che non si sa quando si verrà pagati. Non c’è trasparenza, non ci sono cruscotti di avanzamento, non esistono standard certi di risposta. È come camminare nel buio: un rischio insostenibile per qualsiasi imprenditore.

La burocrazia non è solo un insieme di regole: è un atteggiamento. Serve un cambio di paradigma, culturale prima che digitale. Bisogna creare sistemi fluidi, trasparenti, integrati, che permettano di evitare perdite di tempo assurde come la richiesta di rinvio di documenti già spediti (mi è capitato personalmente, più di una volta).

Serve una vera riforma delle piattaforme, non solo per “sburocratizzare”, ma per rendere visibile il processo: a che punto siamo? Cosa manca? Chi sta aspettando chi? È un tema di efficienza ma anche – soprattutto – di rispetto reciproco. E, ancora prima, serve una riforma culturale: una comunicazione diretta, chiara, tra persone. Serve la volontà, da entrambe le parti, di collaborare, di venirsi incontro, di trovare soluzioni invece di alzare muri.

L’Italia ha bisogno di produttività. Ma la produttività non è solo questione di fabbriche, turni e contratti. È, sempre di più, una questione di fluidità nei processi, di qualità nei servizi, di efficacia nei sistemi di supporto. Se non paghiamo in tempo, se non comunichiamo bene, tutto si inceppa. E le imprese – che dovrebbero essere il motore del Paese – si trovano ancora una volta a piedi.

Il futuro non si costruisce sulle PEC perse. Si costruisce sulle connessioni vere, sui processi snelli, sulla fiducia che nasce da una macchina pubblica che funziona. E se i sistemi non ci sono, allora almeno rispondete al telefono. E iniziate a dare risposte certe. Perché il silenzio non è più accettabile.



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