La nuova tassa Ue sul fatturato delle grandi imprese colpirebbe circa 3.460 aziende italiane con ricavi annui superiori ai 100 milioni di euro e in Liguria le imprese colpite sarebbero 104, il 3% del totale. Lo rivela una stima elaborata dal Centro studi di Unimpresa, secondo cui il gettito richiesto al sistema produttivo nazionale potrebbe raggiungere 1,8 miliardi l’anno, a fronte di un’aliquota ipotetica dell’1% sul volume d’affari, mentre con un’aliquota allo 0,5% il gettito calerebbe a 900 milioni.
Nel quadro della proposta avanzata dalla Commissione europea per finanziare il bilancio comunitario 2028-2035, si inserisce l’introduzione di una nuova “risorsa propria” per l’Unione, sotto forma di contributo obbligatorio per le grandi imprese con un fatturato annuo superiore ai 100 milioni di euro.
A livello territoriale, la regione più colpita sarebbe la Lombardia con oltre 1.100 imprese (32% del totale), seguita da Emilia-Romagna (12%), Veneto (10%), Lazio (9%) e Piemonte (8%). Dal punto di vista settoriale, la pressione si concentrerebbe sul comparto manifatturiero (35% delle imprese coinvolte), seguito da energia e utilities (15%), costruzioni, finanza e distribuzione commerciale (ciascuno al 10%).
«La misura rischia di penalizzare proprio i settori trainanti dell’economia italiana, già esposti a elevata pressione fiscale e rappresenta un serio ostacolo alla competitività delle imprese esportatrici e industriali. L’Italia, che si trova già a fronteggiare una pressione fiscale complessiva elevata (oltre il 43% del pil), non può permettersi ulteriori oneri sulle sue imprese più grandi e dinamiche. In particolare, quelle che trainano le esportazioni, investono in innovazione e generano occupazione qualificata. La proposta della Commissione europea, così com’è formulata, rischia di gravare proprio su questi attori, alimentando un circolo vizioso di sfiducia e disinvestimento», commenta il presidente di Unimpresa Paolo Longobardi.
Tassa Ue sulle imprese con ricavi oltre 100 mln: le stime in Italia
La misura, nelle intenzioni di Bruxelles, dovrebbe generare circa 6,8 miliardi di euro all’anno su scala europea. L’impianto della proposta, dice Unimpresa, è “semplice quanto potenzialmente distorsivo”: le aziende attive nel mercato unico, indipendentemente dalla loro sede legale, dovrebbero versare un contributo parametrato non sugli utili, ma sul fatturato.
Un’impostazione che – se applicata in maniera uniforme – penalizzerebbe in particolare le imprese a margine operativo più basso e quelle che operano in Paesi già sottoposti a pressione fiscale elevata. È il caso dell’Italia, dove vi sono circa 3.460 imprese che superano la soglia dei 100 milioni di euro di fatturato annuo.
Di queste, 1.209 aziende si collocano ben oltre il limite, con fatturati superiori a 250 milioni di euro, generando complessivamente un volume d’affari di oltre 1.400 miliardi di euro. Le restanti 2.250 aziende, con fatturati compresi tra 100 e 250 milioni, si distribuiscono in modo eterogeneo tra industria manifatturiera, infrastrutture, agroalimentare, energia e servizi.
Sulla base di un’aliquota ipotetica dello 0,5% sul fatturato – ipotesi coerente con gli obiettivi di gettito stimati dalla Commissione – il contributo richiesto alle imprese italiane ammonterebbe a circa 0,9 miliardi di euro all’anno. Un’aliquota all’1%, già discussa in ambito tecnico, spingerebbe l’onere annuale a 1,8 miliardi di euro, con un impatto significativo sulla liquidità e sulla pianificazione finanziaria delle imprese coinvolte.
«Il pericolo di questa misura non è solo fiscale, ma strategico. Una tassa sul fatturato non tiene conto del ciclo economico, della redditività effettiva, né della struttura finanziaria delle imprese. Potrebbe colpire indiscriminatamente aziende ad alta intensità di capitale e a margini bassi, scoraggiando investimenti, riducendo la competitività e favorendo ristrutturazioni difensive o delocalizzazioni. Questa misura, pur concepita con l’obiettivo di rendere l’Europa più autonoma sul piano finanziario, corre il rischio di ottenere l’effetto opposto: allontanare dal continente le grandi realtà produttive. Serve una profonda revisione del meccanismo, privilegiando criteri di equità e sostenibilità economica. La contribuzione al bilancio europeo è un obiettivo condivisibile, ma non può essere perseguito attraverso strumenti che comprimono la crescita e minano la base produttiva dei singoli Stati membri. Occorre equilibrio. E, soprattutto, buon senso», osserva il presidente di Unimpresa.
La mappa geografica delle grandi imprese
Le grandi imprese italiane non sono distribuite in maniera omogenea sul territorio nazionale. Secondo le stime più attendibili, la Lombardia da sola raccoglie il 32% delle aziende interessate, pari a oltre 1.100 imprese.
Seguono Emilia-Romagna (12%) e Veneto (10%), territori caratterizzati da un tessuto produttivo solido e fortemente orientato all’export. Anche il Lazio (9%) – grazie alla concentrazione di grandi gruppi energetici, assicurativi e pubblici – e il Piemonte (8%), con un comparto industriale ancora rilevante, presentano quote consistenti.
Anche regioni meridionali come Campania (5%) e Puglia (4%) contribuiscono alla platea delle imprese colpite, segno che la misura, se confermata, avrà un impatto nazionale e non solo concentrato nelle regioni più ricche. La Liguria con 104 imprese colpite, pari al 3%, sarebbe al nono posto della classifica nazionale insieme alla Sicilia.
La distribuzione settoriale delle “big”
Quanto alla ripartizione settoriale, il comparto della manifattura industriale (meccanica, chimica, moda, metallurgia) rappresenta il segmento più numeroso, con circa 1.211 imprese coinvolte, pari al 35% del totale.
Il peso di questo comparto è strategico per l’economia italiana e per la bilancia commerciale del Paese. Seguono, a distanza, il settore energia e utilities, con 519 imprese (15%), il comparto delle costruzioni e infrastrutture, con 346 aziende (10%) e il mondo dei servizi finanziari e assicurativi, con altre 346 imprese (10%).
Il restante 30% si distribuisce tra commercio e distribuzione (346, 10%), telecomunicazioni e media (277, 8%), agroalimentare (242, 7%) e farmaceutica-biomedicale (173, 5%), tutti settori che contribuiscono significativamente al pil e all’occupazione qualificata.
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