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Aree interne da ripopolare, l’ostacolo dei piani green


Lo spopolamento delle aree interne non è un evento irreversibile, dipende dalle azioni di governo, dai progetti, dalle soluzioni amministrative che si sapranno mettere in campo. Lo spopolamento diventa irreversibile quando si vuole – fino a farne un piano di intervento – la Natura senza l’Uomo, come è accaduto (e accade) in tanti documenti della Commissione europea, fino al recente (poco meno di un anno fa) Nature Restoration Law, dove si pretenderebbe che le attività umane si ritirassero progressivamente, per favorire il ritorno della Natura selvaggia.

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Senza presidio umano, la gestione del suolo diventa impossibile. L’abbandono progressivo di interi comprensori può infatti comportare conseguenze dirette sulla capacità di prevenire e affrontare eventi estremi: una Natura abbandonata a sé stessa accentua le fragilità dei territori a valle e sulle coste.

Sarebbe opportuno rammentare tutto questo, quando ci si scandalizza – per certi versi giustamente – quando si legge nel recente Rapporto Psnai (Piano strategico nazionale per le aree interne) una valutazione accademica (non un programma di governo) che ipotizza una irreversibilità dello spopolamento in alcune aree interne italiane. Il ministro Foti ha già chiarito che la frase incriminata – “accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile” – è stata estrapolata dal documento ed è riconducibile a un documento precedente l’attuale Piano: non fa parte delle linee di intervento del Governo.

Anzi, come sta accadendo nell’azione di governo per la ricostruzione del Centro Italia, dopo il sisma 2016-2017, è stato proprio il governo Meloni ad affidare formalmente al Commissario straordinario di governo, in aggiunta alla ricostruzione, anche il rilancio economico e sociale del territorio; lo stiamo facendo con il programma Next Appennino e sviluppando sinergie con quei ministeri (Agricoltura, Lavoro, Sport, Cultura, Turismo) che hanno riservato al cratere 2016 azioni e proposte finalizzate alla rigenerazione delle comunità.

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Ma se, giustamente, si resta interdetti, di fronte al rischio di una “irreversibilità” dell’abbandono di molte aree interne del Paese, si dovrebbe con coerenza contrastare quella filosofia che viene da Bruxelles, secondo la quale l’Uomo dovrebbe farsi da parte, lasciando alla Natura l’onere di proteggersi e di proteggere. È la stessa logica con cui la Commissione europea vuole ridimensionare i fondi per l’agricoltura, diventata incredibilmente il “nemico” della Natura, e non il partner fondamentale per assicurare e proteggere quella biodiversità che rende così ricco e fecondo il nostro territorio.

Le aree interne, inoltre, rappresentano nella loro interezza un polo strategico, oltre che un prezioso capitale culturale e produttivo: il 92% delle Dop e Igp italiane ha a che fare con i piccoli comuni, così come il 70% dei grandi vini. Se lasciamo che questi territori si svuotino, perdiamo una delle colonne portanti del Made in Italy, oltre che un presidio essenziale per la sicurezza: il 94% dei comuni italiani è soggetto a pericolosità da frane, alluvioni o erosione costiera, e nelle aree interne il livello di rischio è assai più elevato: la pericolosità da frana è pari al 10,9%, contro il 5,6% dei comuni urbani.

Come ha ricordato il recente Rapporto Uncem sulla montagna a preoccupare non è la superficie boschiva (che è costantemente in crescita), ma la mancanza di gestione attiva del bosco: tratti inaccessibili, non curati, che non producono reddito né sicurezza. Di più: un bosco “selvaggio” accresce il fattore di rischio, perché per diventare presidio di sicurezza occorrono tempi secolari, vigilati e protetti dalla mano dell’uomo, come insegna la storia dei primi grandi attivatori dei boschi italiani, i frati camaldolesi.

Il declino delle aree interne non è più irreversibile, si vedono già dei segni di rinascita, c’è un’inversione di tendenza di cui abbiamo parlato anche a un recente Festival della restanza e della tornanza, prendendo in prestito le riflessioni originali di Vito Teti – che è stato nostro ospite al convegno – l’antropologo e sociologo che ha dedicato gran parte della sua riflessione alle aree interne.

La questione appenninica merita una sottolineatura importante, grazie all’impulso dell’azione di Next Appennino, con più servizi e comunità, strategie, imprese e infrastruttura, la luce in fondo al tunnel si intravede. Sempre nel corso del Festival sulla restanza e sulla tornanza, il presidente dell’Istat Chelli ha certificato gli effetti degli sforzi che stiamo producendo per ricostruire e rigenerare i territori del sisma 2016, registrando un cambio di direzione nel 2024 nella curva demografica che era in picchiata da decenni. Il Cresme prevede un ritorno di circa 40mila abitanti nell’arco dei prossimi dieci anni, proprio sulla spinta di queste attività di ripresa economica e sociale in atto. Un enorme lavoro portato avanti anche grazie alle quattro Regioni coinvolte – Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo – e ai 138 Comuni. Si è definito una sorta di “Laboratorio Appennino Centrale”, con una governance multilivello, che ha come obiettivo ricostruire e mettere in sicurezza le case e le infrastrutture senza dimenticare il ruolo delle comunità locali che è fondamentale per dare un futuro ai nostri territori. Un modello per tutto l’Appennino, per le sue aree interne, per la sua rinascita.

 *Commissario straordinario per la Ricostruzione e Riparazione sisma 2016

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