Con la sentenza n. 118 del 21 luglio 2025 la Corte Costituzionale ha eliminato il tetto delle 6 mensilità che il giudice poteva applicare in presenza di un licenziamento illegittimo adottato da datori di lavoro che occupano meno di 16 dipendenti: la decisione non è stata “un fulmine a ciel sereno” ma era stata preannunciata dalla sentenza n. 183/2022 con la quale, dopo aver rilevato la sostanziale illegittimità dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015, la Consulta aveva invitato il Parlamento a provvedere.
L’inazione legislativa e l’intervento della Consulta
Durante tale periodo (sono passati circa 3 anni) non è successo nulla di quanto richiesto è stato fatto e non vi è, al momento, alcun disegno di legge “in itinere” e, allora, i giudici costituzionali, pur consapevoli dei limiti entro i quali potevano agire, sono intervenuti, dichiarando la illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alle parole “e non può, in ogni caso, superare il limite delle sei mensilità”.
Chi è coinvolto dalla norma
Per completezza di informazione e prima di entrare nel merito della decisione ricordo che la disposizione oggetto di esame si applica anche ai datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fine di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto.
L’impatto sulle piccole imprese
La questione affrontata dalla Consulta non è affatto secondaria sol che si pensi che, nel nostro Paese, caratterizzato da un sistema di piccole aziende (sono circa 805.000 secondo la rilevazione ISTAT relativa al 2023), i lavoratori teoricamente interessati dalla novità sono milioni.
Le motivazioni giuridiche della Corte
La sentenza, nasce dal ricorso del Tribunale di Livorno che contestava la costituzionalità della tutela indennitaria dimezzata, contenuta nel predetto articolo, rispetto a quella prevista per le imprese dimensionate oltre i 15 dipendenti, che si sostanziava in una forbice alquanto ridotta compresa tra 3 e 6 mensilità, palesemente in contrasto con i principi di ragionevolezza, di uguaglianza e, perché no, anche di deterrenza nei confronti del datore di lavoro, concretandosi, nella maggior parte dei casi, in una sorta di indennità forfettaria concessa in forma, quasi automatica.
Personalizzazione dell’indennità
All’inizio del “considerato in diritto” la Corte Costituzionale ricorda chi sono i potenziali destinatari dell’indennizzo risarcitorio: essi sono i datori di lavoro imprenditori e non imprenditori che non raggiungono i requisiti occupazionali stabiliti dal comma 8 dell’art. 18 della legge n. 300/1970 (non più di 15 dipendenti presso l’’unità produttiva considerata o in ambito comunale e che comunque non superino i 60 su tutto il territorio nazionale).
Una tutela più equa
La Corte osserva che il Legislatore può ben scegliere, come ha fatto e come ne ha confermato la legittimità la sentenza n. 196 del 2018, la tutela indennitaria rispetto alla reintegra nel posto di lavoro, ma questa deve essere adeguata e deve essere tale da consentire al giudice, in un momento della vita, particolarmente difficile per il lavoratore, di poter modulare l’indennità sulla base di molteplici elementi come, il numero degli occupati, il settore, l’anzianità di servizio dell’ex dipendente, il comportamento tenuto dalle parti nel corso del giudizio (sono, nella sostanza, quelli evidenziati dall’art. 8 della legge n. 604/1966): le casistiche che si presentano sono diverse ed articolate e, quindi, è necessario personalizzare l’indennità in relazione al danno subito.
Un tetto incongruo e un invito alla riforma
La Consulta ritiene coerente e non incostituzionale il dimezzamento della indennità per risarcimento da licenziamento illegittimo che per le imprese più grandi va da 6 mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto a 36, ma al tempo stesso, ritiene che il tetto massimo di 6 mensilità sia particolarmente incongruo in una serie di casi ove la tutela economica per i lavoratori delle altre aziende è decisamente superiore. La lesione dei parametri costituzionali con l’identificazione del tetto massimo a 6 mensilità non consente di adeguare l’importo alla specificità di ogni singola vicenda (non tutti i recessi intimati dai datori di lavoro sono uguali) e lo stesso criterio che distingue le aziende contando, soltanto, il numero dei dipendenti (fino a 15 od oltre tale limite) non è più attuale sol che si pensi all’incessante evoluzione tecnologica e alla trasformazione dei processi produttivi ove nascono e crescono aziende che fatturano milioni e hanno un numero di lavoratori subordinati abbastanza esiguo (essendo altri, magari, collaboratori autonomi, lavoratori somministrati, ecc.); è un fenomeno questo che si registra ogni giorno e che, presumibilmente, è destinato ad aumentare con l’introduzione sempre più massiccia dell’Intelligenza Artificiale.
Su quest’ultimo aspetto i giudici costituzionali non possono intervenire, atteso che la materia è di esclusiva competenza del Legislatore: da ciò discende un nuovo pressante invito che la sentenza n. 118 rivolge al Parlamento.
Nuove regole e criteri per i piccoli datori di lavoro
Occorre introdurre norme che ridisegnino il regime speciale previsto per i piccoli datori di lavoro, a partire dalla stessa individuazione dei criteri di identificazione che non possono essere soltanto quelli relativi al numero dei dipendenti in forza, cosa che, nel nostro ordinamento si è cominciato a fare con la riforma delle procedure concorsuali previste dalla legge n. 80/2005 e con il codice della crisi di impresa, disciplinato dalla legge n. 155/2017 e che, a livello comunitario, ha trovato nella Direttiva n. 2023/2775 gli spunti per un adeguamento dei criteri per la definizione delle micro imprese, delle piccole imprese e delle medie e grandi imprese.
Il Tribunale di Livorno aveva, altresì, ritenuto non manifestamente infondata la illegittimità del dimezzamento previsto dal comma 1 dell’art. 3, dal comma 1 dell’art. 4 e dal comma 1 dell’art. 6 ma la Corte ha ritenuto che, in ogni caso, la forbice, seppur ridotta, fosse sufficiente per poter decidere sulla specificità di ogni singola vicenda.
E’ quindi, soltanto il comma 1 dell’art. 9 che viene, in parte, cassato dai giudici costituzionali: l’eliminazione del tetto massimo ma non del dimezzamento fa sì che la tutela indennitaria sia compresa all’interno di una fascia che va dalle 3 alle 18 mensilità, in quanto il ristoro può essere limitato ma non sacrificato per la logica del contenimento dei costi, perché si è, pur sempre, a fronte di un licenziamento illegittimo che, pur nel contesto delle piccole aziende, resta sempre un atto illecito, come ricorda la sentenza n. 150 del 2020.
Ma, questa decisione avrà effetti soltanto nei giudizi, oppure riverbererà qualcosa anche nei tentativi di conciliazione che usualmente si svolgono nelle c.d. “sedi protette”?
Effetti nei tentativi di conciliazione
A mio avviso, già nel breve periodo potrà avere effetto anche sui tentativi di conciliazione riguardanti i licenziamenti nelle piccole aziende che si svolgono, ad esempio, avanti alla commissione provinciale di conciliazione istituita presso ogni Ispettorato del Lavoro, oppure in sede sindacale o avanti ad un organismo di certificazione. Qui il tetto massimo di 6 mensilità nelle richieste non sarà assolutamente più rispettato e, sicuramente, si assisterà a richieste molto più cospicue, alla luce della nuova formulazione dell’art. 9, comma 1.
Conclusione: verso nuove tutele?
Personalmente ritengo che anche il tentativo facoltativo di conciliazione sul licenziamento, già avvenuto, previsto dal comma 1 dell’art. 6, entro i 60 giorni successivi al recesso, ove l’indennità risarcitoria per le piccole imprese, dimezzata ex art. 9, comma 1, è di ½ mensilità all’anno e comunque non inferiore ad una per ogni anno di servizio fino ad un massimo di 6, non imponibile ai fini dell’IRPEF e non soggetta a contribuzione previdenziale, (le ulteriori mensilità eventualmente erogate non godono di alcun beneficio fiscale), perderà il poco “appeal” rimasto, potendo ben essere più conveniente seguire la via giudiziale, soprattutto se il recesso è caratterizzato da una palese illegittimità.
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