Un’analisi critica del paradosso italiano ed europeo: mentre la legge riconosce il diritto a un conto corrente di base, le banche lo negano sempre più spesso a cittadini e imprese in nome di un’opaca “lotta al riciclaggio”, senza motivazioni né rimedi efficaci, esercitando di fatto un potere assoluto sulla vita economica delle persone.
Nella società contemporanea, il conto corrente ha smesso di essere un semplice servizio per diventare un bene primario, un prerequisito indispensabile per esistere legalmente. Senza di esso, non si può ricevere uno stipendio o una pensione, pagare un affitto o le bollette, accedere a prestazioni pubbliche essenziali. È la soglia minima di accesso alla vita economica e civile. Ma esiste il diritto al conto corrente? E cosa succede se questo diritto non viene di fatto garantito? È questo il paradosso giuridico e sociale che un numero crescente di cittadini e imprese sta vivendo sulla propria pelle: da un lato la legge sancisce un diritto, dall’altro la prassi bancaria lo nega, spesso in modo arbitrario, opaco e senza possibilità di appello.
Perché un conto corrente è considerato un diritto fondamentale?
Il legislatore, sia a livello europeo che nazionale, è perfettamente consapevole del ruolo essenziale del conto corrente. La direttiva europea 2014/92/UE, recepita in Italia con il Decreto Legislativo 37/2017, ha introdotto il diritto ad avere un “conto di base”, specialmente per i cittadini considerati “finanziariamente vulnerabili”. L’accesso ai servizi bancari di base è stato inoltre qualificato da diverse istituzioni internazionali come un diritto umano emergente, in linea con l’obiettivo 8 dell’Agenda 2030 dell’ONU sull’inclusione finanziaria.
È un diritto perché, in un’economia che spinge sempre di più verso la tracciabilità e la digitalizzazione dei pagamenti, essere esclusi dal sistema bancario significa essere condannati all’invisibilità e, di fatto, all’impossibilità di operare legalmente. Inoltre, non dimentichiamo che, per legge:
- le pensioni di importo pari o superiore a 1.000 euro devono essere obbligatoriamente versate sul conto corrente;
- lo stipendio da lavoro dipendente deve essere versato con modalità tracciabili, come appunto il bonifico bancario;
- la possibilità di fruire di detrazioni fiscali (ad esempio alcune spese mediche o i lavori edili) richiedono un pagamento tracciabile.
Ecco dunque che il conto corrente non è solo necessario ma anche, in alcuni casi, obbligatorio.
Perché le banche rifiutano di aprire o chiudono improvvisamente i conti correnti? Il fenomeno del “De-risking”
Nonostante questo riconoscimento formale, nella pratica il diritto al conto è tutt’altro che garantito. Con una frequenza sempre maggiore, cittadini e imprese si vedono rifiutare l’apertura di un conto o revocare quello esistente, quasi sempre senza una motivazione trasparente.
La giustificazione che le banche adducono, spesso dietro un muro di silenzio, è legata alle severissime normative antiriciclaggio (AML) e antiterrorismo. Per evitare di incorrere in pesanti sanzioni, gli istituti di credito hanno adottato un approccio estremamente cautelativo, noto come “de-risking”: piuttosto che gestire un cliente percepito come “a rischio” (anche solo potenzialmente), preferiscono escluderlo a priori.
Il fenomeno è talmente grave che l’Autorità Bancaria Europea (EBA), nel suo Consumer Trends Report 2024/25, ha indicato il de-risking come una delle tre principali criticità per i consumatori europei, definendo l’accesso ai servizi finanziari un prerequisito essenziale per la partecipazione alla vita economica e sociale.
Come è possibile che le banche esercitino una funzione di controllo che spetterebbe allo Stato?
A partire dagli anni ’90, le grandi privatizzazioni hanno trasformato il sistema bancario da un’infrastruttura con finalità anche pubbliche a una rete di operatori privati orientati al profitto.
Dopo l’11 settembre 2001, con l’esplosione della priorità della sicurezza globale, normative sempre più stringenti hanno di fatto “esternalizzato” alle banche compiti di controllo che sarebbero propri dello Stato. Banche, intermediari immobiliari, notai e altri professionisti sono stati investiti della responsabilità di attuare normative cruciali in materia di antiriciclaggio e antiterrorismo.
Si è creato così un cortocircuito: le banche si trovano a esercitare, de facto, una funzione pubblica di controllo, ma senza essere soggette ai principi e ai limiti che governano l’azione pubblica, come l’obbligo di motivazione, la trasparenza e il diritto al contraddittorio per il cittadino.
Con quali strumenti le banche decidono se sei un cliente “a rischio”?
Il processo di due diligence che porta all’esclusione è spesso un buco nero. Le decisioni vengono prese sulla base di profilazioni opache e automatismi che trasformano ogni singolarità in un sospetto.
Spesso gli istituti di credito basano le loro istruttorie su banche dati a pagamento fornite da colossi privati dell’intelligence finanziaria, come la nota piattaforma World Check. Il problema è che questi strumenti, privati e non verificabili dal cittadino, sono alimentati non solo da fonti pubbliche, ma anche da contenuti editoriali di attendibilità incerta e persino da risultati di motori di ricerca non verificati. Già nel 2017, i garanti della privacy di Belgio, Italia e Regno Unito avevano espresso forti preoccupazioni sul rischio di “schedature private di massa”.
L’inclusione o l’esclusione di una persona dal sistema economico finisce per dipendere da preconcetti, o peggio, da algoritmi.
Può bastare la tua provenienza geografica da un’area considerata “a rischio”, il tuo settore di attività (l’edilizia, l’e-commerce, l’assistenza domiciliare sono spesso segnalati come rischiosi), un’omonimia con una persona segnalata, un legame indiretto con un soggetto ritenuto problematico o persino una semplice querela per diffamazione ricevuta, per farti scattare un “allarme rosso” e vederti negare l’accesso ai servizi bancari, spesso senza nemmeno sapere il perché.
Quali sono le conseguenze concrete per chi viene escluso dal sistema bancario?
Le conseguenze per chi si vede rifiutare l’apertura del conto corrente sono drammatiche e paradossali.
Mentre le direttive antiriciclaggio rendono il conto corrente necessario per operare legalmente, lo stesso sistema che dovrebbe applicarle nega quel conto in nome di una presunta “legalità”. Come ha scritto un commentatore, è come se l’iscrizione a scuola fosse subordinata a una valutazione predittiva del futuro rendimento dello studente, o se le cure sanitarie fossero erogate solo dopo aver dimostrato di poter guarire.
Un’azienda senza un conto corrente non può pagare i dipendenti, non può incassare fatture, non può onorare i contratti con i fornitori. È, di fatto, condannata alla paralisi e alla chiusura. Le PMI e le startup sono le più vulnerabili, spesso escluse per automatismi legati al settore o al solo fatto di essere neocostituite.
Per le persone fisiche, l’esclusione dal sistema bancario costringe a rifugiarsi nell’uso esclusivo del contante e nell’invisibilità fiscale, alimentando proprio quell’economia sommersa che le norme antiriciclaggio, in teoria, mirerebbero a contrastare.
Esiste un modo per difendersi se la banca ti nega o ti chiude il conto?
Nella pratica, i rimedi contro la banca che nega l’apertura di un conto corrente sono pochi e spesso inefficaci.
La Banca d’Italia, pur avendo competenza sulla trasparenza bancaria, non può obbligare un istituto ad aprire o a mantenere un conto se questo invoca un generico “rischio AML”.
Il Garante per la Privacy può intervenire, ma solo a posteriori e di fronte a un illecito palese e dimostrabile. Ma come si può dimostrare, in assenza di una motivazione scritta da parte della banca?
Le autorità giudiziarie si trovano spesso di fronte a contratti che, formalmente, prevedono la possibilità di recesso unilaterale da parte della banca, rendendo difficile contestare la decisione.
Nel vuoto attuale, il cittadino è solo. Non esiste un’autorità terza, un ombudsman finanziario, che possa riesaminare queste decisioni in modo rapido ed efficace e garantire l’effettività del diritto al conto.
Quali riforme servono per rendere davvero effettivo il diritto al conto corrente?
Negare un conto corrente non è una semplice decisione commerciale; è una scelta che incide profondamente sul destino di una persona o di un’impresa. Di fronte a questo cortocircuito, è necessario e urgente ripensare il sistema. Alcune possibili direttrici di riforma sono:
- trasformare il diritto al conto in un diritto soggettivo pieno, con una forma di garanzia pubblica o la vigilanza di un’autorità terza e indipendente che possa intervenire in caso di diniego;
- introdurre per legge l’obbligo di motivazione scritta per ogni rifiuto o chiusura di un conto. Questo permetterebbe al cittadino di conoscere le ragioni e, se le ritiene infondate, di contestarle. A questo andrebbe affiancato un meccanismo di ricorso amministrativo celere;
- subordinare l’uso di banche dati reputazionali private a principi di trasparenza, verifica delle fonti, aggiornamento e diritto al contraddittorio. Nessuno dovrebbe essere “schedato” ed escluso dal sistema economico sulla base di un algoritmo o di informazioni non verificate, senza la possibilità di replicare.
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