Il Fondo monetario internazionale ha promosso i conti pubblici italiani. Ora bisognerebbe spingere sulla crescita
Il Fondo monetario internazionale, nel report diffuso martedì relativo alle conclusioni dopo la missione ex articolo IV, ha promosso l’Italia sul fronte dei conti pubblici, chiedendole, tuttavia, di raggiungere già nel 2027 un avanzo primario del 3% del Pil (contro l’1,5% programmato dal Governo). A giudizio del Fmi, il Pil del nostro Paese quest’anno crescerà dello 0,5%, meno di quanto previsto dalla Commissione europea (+0,7%).
Secondo Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano, «il riconoscimento dei progressi compiuti sul fronte della finanza pubblica era il minimo che ci si potesse attendere».
Perché?
Perché non solo l’Italia ha raggiunto l’avanzo primario già nel 2024, ma, secondo le proiezioni dello stesso Fmi, sarà l’unico tra i Paesi del G7 a registrarlo ancora nel 2030, visto l’addio al freno al debito della Germania. Se ci fosse una giustizia per quel che riguarda i verdetti delle agenzie di rating, il nostro Paese meriterebbe una valutazione migliore, che concretamente potrebbe far diminuire il costo degli interessi sul debito, che è l’unico vero punto critico dei suoi conti pubblici.
Che valutazione meriterebbe il nostro Paese?
Partiamo dal presupposto che, nonostante un comportamento fiscale non certo attento, la Francia, secondo Standard & Poor’s ha ancora un rating AA-, mentre l’Italia si ferma a BBB+. Lo spread tra i due Paesi, tuttavia, nelle ultime settimane si è assottigliato e addirittura è diventato a nostro favore sulle scadenze brevi. Se questo avviene perché la situazione dei conti pubblici francese peggiora, a differenza della nostra, non vedo ragioni che giustifichino una differenza nel rating sul debito sovrano di quel tipo.
C’è qualcosa che non la convince nel report del Fmi sull’Italia?
Sì, a cominciare dalla richiesta di far crescere l’avanzo primario fino al 3% del Pil nel 2027: significherebbe portare il Paese in recessione, il che non farebbe di certo scendere il rapporto debito/Pil. Il Fmi ricorda anche la nostra criticità demografica, che tuttavia penso stiamo affrontando abbastanza bene: i consumi, nonostante una popolazione calante, restano grosso modo costanti, grazie anche a un aumento dell’occupazione. Il quale, essendo maggiore dell’incremento del Pil, nel breve termine porta naturalmente al calo della produttività che il Fondo evidenzia nella sua analisi.
La stima sulla crescita del Pil del Fmi è più bassa di quella della Commissione europea. Cosa ne pensa?
Vediamo intanto qual è stata la crescita del Pil nel secondo trimestre che l’Istat comunicherà la prossima settimana. Considerando che la produzione industriale e quella nelle costruzioni negli ultimi tre mesi disponibili è aumentata, se i servizi e la domanda estera netta non hanno subito un tracollo dovremo poter vedere una crescita dello 0,1-0,2%.
C’è, a suo avviso, la possibilità di spingere la crescita del nostro Paese, vista anche l’assenza di iniziative dell’Ue in materia, compatibilmente con i vincoli di bilancio?
I meriti del Mef sono indubbi, sta riuscendo a ottenere risultati che i tecnici che erano stati appositamente chiamati in passato non sono mai riusciti a realizzare. Oggi abbiamo anche uno spread che si è ridotto a livelli che non si vedevano da prima della crisi dei subprime. A mio avviso il Governo potrebbe mettere in campo 15-20 miliardi in tre anni, una cifra compatibile con la sostenibilità dei conti pubblici, per la crescita.
Tramite quale tipo di interventi?
Visto il calo demografico, è difficile crescere puntando sui consumi. Meglio farlo scommettendo sugli investimenti, che potranno ancora alimentare la crescita dell’occupazione. Penso si possano mettere in campo due tipologie di incentivi per favorire gli investimenti delle imprese.
Ci può spiegare quali sarebbero queste due tipologie di incentivi?
Alle imprese medie e medio-grandi che hanno già usufruito di Industria 4.0 dovrebbe essere data la possibilità di far seguire un investimento di tipo immateriale, tramite la digitalizzazione o l’AI. Alle imprese più piccole, che negli anni scorsi non hanno potuto utilizzare Industria 4.0, magari perché non avevano la capacità finanziaria necessaria, andrebbe data la possibilità di farlo oggi. In questo modo si permetterebbe a chi è rimasto indietro di avanzare e a chi è già andato avanti di poter diventare ancora più efficiente.
Trump ha annunciato di aver raggiunto un accordo sui dazi con il Giappone: considerando che si partiva da una tariffa del 25% e si è arrivati al 15%, si può essere ottimisti anche per l’esito della trattativa tra Usa e Ue?
Mi auguro che si possa trovare un accordo non eccessivamente penalizzante. Le previsioni che oggi vengono fatte sugli impatti dei dazi mi sembrano ancora troppo imprecise. Quello che ci deve interessare è che le tariffe verso l’Ue non siano dissimili da quelle applicate nei confronti dei nostri principali competitor, come Cina, Giappone e Corea del Sud: non sono, infatti, i prodotti americani che potranno ambire a sostituire quelli italiani. C’è poi un dato interessante che credo vada ricordato.
Quale?
Nei primi 5 mesi dell’anno è aumentato di oltre 3 miliardi di euro l’export italiano verso gli altri Paesi Ue, soprattutto grazie alla ripartenza tedesca. Questo vuol dire che la crescita nell’anno potrebbe arrivare a 6-7 miliardi, ovvero quanto qualcuno stima perderemo nell’export verso gli Usa, anche se sono convinto che non perderemo così tanto.
Perché?
Per fare un esempio, non penso che i vini italiani saranno troppo penalizzati dalla concorrenza di quelli australiani, sudafricani o sudamericani, perché si rivolgono a un certo target che continuerà a volerli anche se costeranno di più. Tra l’altro so che ci sono catene di distribuzione americane disposte ad accollarsi parte degli aumenti dovuti ai dazi pur di continuare ad avere alcuni prodotti agroalimentari italiani da poter offrire ai loro clienti.
(Lorenzo Torrisi)
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