ROMA – “La guerra commerciale dei dazi di Donald Trump sta rimescolando le carte della geografia industriale globale. Già l’Inflation Reduction Act (IRA) – la maxi-legge varata nell’agosto 2022 dall’amministrazione guidata da Joe Biden per sostenere la transizione energetica americana – aveva messo sul piatto oltre 370 miliardi di dollari in crediti d’imposta e incentivi per attrarre investimenti in energia pulita, batterie, semiconduttori e tecnologie strategiche. Adesso molte aziende di tutto il mondo potrebbero decidere di andare a produrre oltreoceano anche per evitare i dazi di Trump”. Lo spiega in un articolo di approfondimento Ubaldo Livolsi, professore di Corporate Finance e fondatore della Livolsi & Partners S.p.A..
“Per ora, a dire il vero, c’è ancora molta incertezza. Nel primo trimestre del 2025, gli investimenti diretti esteri nel manifatturiero statunitense (Foreign Direct Investment, FDI) sono calati a 52,8 miliardi di dollari, in netto calo rispetto ai 79,9 miliardi del trimestre precedente. Tuttavia, secondo uno studio del Peterson Institute for International Economics (PIIE), i progetti annunciati tra gennaio e aprile 2025 superano i 200 miliardi di dollari, trainati proprio dalle opportunità offerte
dall’IRA e dalla necessità di produrre localmente per evitare nuove barriere commerciali. Tra i casi più emblematici, Volkswagen ha annunciato un rafforzamento della propria presenza negli Stati Uniti, con l’obiettivo di raddoppiare la quota di mercato americana fino al 10%, grazie a investimenti in nuovi impianti di batterie. BASF ha ridimensionato la capacità produttiva europea per potenziare quella americana. Anche l’italiana Ferrero ha, la settimana scorsa, raggiunto un accordo per l’acquisto della società americana WK Kellogg per 3,1 miliardi di dollari, confermando il proprio impegno a crescere in Nord America”.
“L’Unione Europea, impegnata in una negoziazione schizofrenica con la nuova amministrazione USA- commenta l’esperto- rischia di mettere in secondo piano il pericolo di delocalizzazione delle sue aziende. Eppure, molto è stato fatto negli ultimi anni: dagli IPCEI per rafforzare la filiera delle batterie e dei semiconduttori, all’European Chips Act, fino al rilancio del Green Deal Industrial Plan e al varo del Net-Zero Industry Act. Più recentemente sono arrivati l’annuncio del Clean Industrial Deal, un piano da 100 miliardi di euro per rafforzare la manifattura verde europea, e la Critical Chemical Alliance. Nonostante questi provvedimenti, però, le risposte europee restano lente nei tempi di attuazione e frammentate nella governance, e quindi poco efficaci nel contrastare l’efficienza decisionale americana. L’Italia, per struttura produttiva e specializzazione settoriale, è tra i Paesi più esposti. Eppure, il nostro tessuto industriale mantiene asset formidabili: una filiera manifatturiera completa, competenze tecniche diffuse ed eccellenze riconosciute in settori come meccanica, agroalimentare, packaging e farmaceutica. Negli ultimi anni, il governo italiano ha introdotto provvedimenti importanti: dal Piano Transizione 5.0 alla ZES Unica per il Mezzogiorno, fino al nuovo Fondo Nazionale del Made in Italy, con una dotazione iniziale di un miliardo di euro. Inoltre, contiamo molto sul Piano Mattei, che dovrebbe aprire nuovi mercati interessanti e importanti come quelli africani. Tali sbocchi commerciali, insieme allo sviluppo delle esportazioni in Medio Oriente e in Asia – che potremmo ampliare – dovrebbero aiutarci a compensare almeno in parte la riduzione delle esportazioni verso gli Stati Uniti. Tuttavia, come sosteniamo da tempo, serve ottimizzare il sistema Paese nel suo complesso. Le imprese, sia italiane, sia quelle estere che verrebbero volentieri a investire in Italia, chiedono meno burocrazia, tempi certi per le autorizzazioni, un fisco stabile e infrastrutture all’altezza”, conclude.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link