In una Torino che ha attraversato un profondo mutamento strutturale e che ancora è protagonista di uno scenario in continua evoluzione, la formazione e la ricerca diventano leve strategiche per costruire un’economia più sostenibile, inclusiva e competitiva. Quali strumenti servono per accompagnare questa transizione? Lo abbiamo chiesto a Cristina Prandi, nuova rettrice dell’Università di Torino (di recente elezione, il suo mandato inizierà ufficialmente a ottobre 2025), chimica, docente e scienziata di rilievo internazionale, da sempre attenta ai temi dell’innovazione responsabile, della sostenibilità e del ruolo sociale della scienza. Con lei abbiamo discusso di formazione, giovani, impresa e della nuova economia che potrebbe (e dovrebbe) nascere proprio a partire dal sapere.
Per sei anni, cominciando da ottobre, sarà alla guida dell’Università di Torino. Cosa porta di “suo” nel rettorato?
«Per parlare di futuro, partirei dal mio passato. Vado orgogliosa di un percorso personale che mi ha visto parte attiva dell’Ateneo fin da ragazza: prima come studentessa, poi ricercatrice, poi professoressa e infine anche come vice-rettrice alla ricerca nel campo delle Scienze naturali e agrarie. Un vissuto che mi ha portato necessariamente al confronto con questa Università da molteplici punti di vista. Ma è stata l’ultima esperienza in particolare che mi ha permesso di conoscere con più ampia visione le potenzialità dell’Ateneo e lavorare su sviluppo e innovazione. Ecco, è stata proprio la consapevolezza delle sue potenzialità lo stimolo per la mia candidatura. In tutta la mia vita, tra difficoltà e opportunità, ho preso la strada dell’opportunità e non me ne sono mai pentita. Lo sto rifacendo ora, pur nella consapevolezza delle complessità che dovremo superare per guidare l’Università verso il futuro».
In un contesto cittadino e nazionale in rapido cambiamento, quali dovrebbero essere – secondo lei – le priorità dell’Università per accompagnare questa fase di trasformazione?
«La formazione deve restare ovviamente al centro di tutti i nostri programmi, ma ritengo che un punto rilevante sia anche ripensare il modello di collaborazione tra Università e mondo privato. Fino ad oggi è stato fatto troppo poco. Al di là del servizio che l’Università offre alle aziende fornendo talenti ben formati, credo che un punto chiave debba essere la coprogettazione e lo sviluppo della conoscenza in modo congiunto».
L’Ateneo come ponte tra sapere e impresa, tra ricerca e territorio?
«Esatto. Mi piace immaginare una filiera continua, che parta dalla ricerca di base e arrivi fino alla collaborazione attiva con il territorio. L’Università è in grado di formare competenze in ogni fase di questo percorso, ma è essenziale che anche il sistema privato sia parte integrante del processo, ad esempio sostenendo la creazione di nuovi centri di ricerca. Il mio “sogno” è un vero melting pot tra accademia e impresa, con il contributo di altri attori pubblici, come la Regione. Non possiamo dimenticare che a Torino ci sono circa 120mila studenti universitari: una presenza che abbassa sensibilmente l’età media della popolazione e che rende l’Università un potenziale motore per l’inserimento di lavoratori altamente qualificati. In un sistema che sappia integrare politiche giovanili, mondo accademico e imprese, l’intero territorio non potrà che trarne beneficio».
Se Torino è ormai riconosciuta come polo d’innovazione, come può l’Università innovare sé stessa?
«Per definizione l’Università non smette mai di fare innovazione attraverso la ricerca. Vi racconto un aneddoto: qualche giorno fa mi si chiedeva cosa ci sia ancora da inventare nella chimica (che è poi il mio ambito). Ho risposto “tutto”: oggi c’è la necessità di riscoprire gli interi processi, in termini di sostenibilità ad esempio. Quando si ricomincia ecco che c’è innovazione tecnologica. Ma tengo a sottolineare un punto: questi nuovi campi di applicazione non riguardano solo gli “scienziati” in senso stretto, dato che sono temi che si portano dietro materie come la filosofia, la sociologia, l’economia. Abbiamo l’opportunità di misurarci con una visione globale che guarda all’innovazione e che pervade tutto l’Ateneo, dunque».
Anche perché oggi c’è la tendenza a guardare alla città come centro d’eccellenza per l’aerospazio o per il biomedicale. E gli altri ambiti?
«Non possiamo negare che oggi i finanziamenti più rilevanti (ad esempio quelli europei) si concentrano su materie sentite come “di tendenza”. L’aerospazio certo, ma anche il biomedicale appunto, o ciò che riguarda la sostenibilità. Diversificare è invece fondamentale: se fino a qualche decennio fa il territorio si basava su uno sviluppo verticale, è evidente come ora si debba superare quel modello. Pertanto il nostro impegno è accedere a questi finanziamenti spalmandoli anche su discipline che solo apparentemente sono distanti».
Un argomento particolarmente sentito è quello dei giovani che preferiscono studiare all’estero piuttosto che restare nelle nostre Università. Cosa ne pensa? Come fare per invertire la rotta?
«Devo ammettere che una delle mie battaglie è quella di superare il concetto di fuga di cervelli. Ci stiamo confrontando con una generazione che sceglie di studiare all’estero per fare un’esperienza di vita, non per rifiuto di quello che l’Italia offre. La qualità della nostra formazione e della nostra ricerca è riconosciuta, così come i servizi offerti. Piuttosto l’impegno deve essere quello di creare un ambiente internazionale presso le nostre sedi in modo da attirare ancora più studenti stranieri. E anche per dar modo di continuare a respirare questo clima una volta che i nostri giovani sono tornati a casa. Interpreto il tutto come un flusso di persone che si fermano e poi vanno, in maniera completamente organica. L’Università deve farsi trovare pronta».
Parlava della qualità della formazione. Se formazione e ricerca sono già delle eccellenze, cosa c’è da migliorare per questo Ateneo?
«Allora, il livello della nostra offerta è sicuramente alto e riconosciuto, tanto che molti professori all’estero ambiscono ad avere dottorandi italiani. E anche la ricerca sviluppata all’interno delle nostre Università è assolutamente competitiva. Quello su cui bisogna lavorare è, a mio parere, il complesso delle infrastrutture. Mancano spesso spazi adeguati e in alcuni casi ci si confronta con strutture piuttosto vetuste. Non se ne parla come sarebbe utile fare, ma l’adeguamento degli spazi universitari è forse una delle sfide più importanti che abbiamo davanti».
È da queste considerazioni che nascono progetti come quello di Grugliasco?
«Certamente. La “Città delle Scienze e dell’Ambiente” di Grugliasco è il risultato di grandi investimenti ed è fonte di grandi opportunità. Mi riferisco al nuovo polo scientifico dell’Università di Torino che prevederà la concentrazione dei dipartimenti di Chimica, Biologia, Scienze della Vita e Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari in un’unica area. 230.000 metri quadrati, con strutture per la didattica, la ricerca e servizi per gli studenti. Parlo di opportunità perché il polo fa sicuramente parte di un piano di riordino delle sedi universitarie dell’Università di Torino, con l’obiettivo di creare un ambiente più integrato e stimolante per la ricerca e la formazione, ma sarà anche occasione per spingere su quell’internazionalità di cui parlavo prima. Gli impianti sportivi interni previsti dal progetto ne sono una dimostrazione, gli studenti stranieri cercano anche queste proposte in un’università».
Come diceva poc’anzi è un progetto che richiede notevoli investimenti…
«A costo di ripetermi, proprio per i costi che un progetto di questo tipo richiede, ma anche per i vantaggi che offrirà a tutto il territorio, mi sento di riproporre l’appello a tutti quegli enti privati che magari già investono sul capitale umano ma che potrebbero fare di più. C’è bisogno di una connessione più rilevante, ma ovviamente per stimolare questo genere di collaborazioni servono visioni chiare e definite».
Il legame tra Università e territorio si ripropone anche e soprattutto in interventi come il nuovo polo scientifico…
«I masterplan dell’Università di Torino e del Politecnico di Torino fanno inevitabilmente parte del piano di sviluppo della città. Non vi sono dubbi. Per questo serve un coordinamento tra Università, Città, Città Metropolitana e Regione. Condividiamo allora scelte e problematiche, come i trasporti. Se il campus ospiterà oltre 20mila studenti, la politica edilizia e quella dei trasporti non possono esimersi dal fare rete. Non è una sinergia rimandabile».
Se pensa all’Università di Torino tra 20 anni?
«Il mio mandato durerà sei anni quindi è un po’ difficile fare previsioni sul ventennio: di certo il mio obiettivo è avviare e consolidare un percorso di sviluppo e innovazione, cominciando con la risoluzione di problematiche contingenti, ma sempre avendo chiara in mente la visione di come le scelte di oggi influiranno sul futuro. Sei anni per me magari possono essere molti, ma su una timeline non sono poi così tanti: l’importante è intraprendere una strada con determinazione e sfruttare le opportunità».
Preferisco non farle la classica domanda sul fatto che lei sia la prima rettrice donna dell’Università di Torino, è un fatto, rischieremmo di cadere nel banale…
«Apprezzo. I giorni scorsi però pensavo: sarò la “prima rettrice” per sempre. Una denominazione che un po’ di emozione mi crea, ma d’altra parte mi offre lo spunto per impegnarmi ancora di più».
(foto MARCO CARULLI e UNITO)
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