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Massimo Boidi: cosa significa fare impresa oggi?


Massimo Boidi è dottore commercialista, socio fondatore dello Studio Boidi & Partners, vicepresidente della Fondazione Piccatti Milanese, ente di diretta emanazione dell’ODCEC di Torino, e professore a contratto di Diritto Commerciale II presso il Dipartimento di Management dell’Università di Torino. Assiste le imprese sotto il profilo societario e fiscale, sia nazionale che internazionale, ed è presidente o componente del Collegio Sindacale di molte società. Vicepresidente esecutivo di Assofiduciaria, esperto in materia di società fiduciarie e di trust, ci è sembrato l’interlocutore ideale per riflettere sullo stato dell’imprenditoria torinese e su un futuro che, inevitabilmente, si può costruire solo con coraggio, concretezza e visione.

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Mai come oggi il mondo dell’imprenditoria è attraversato da una profonda transizione che coinvolge inevitabilmente anche il tessuto produttivo piemontese. Qual è la sua opinione a riguardo?

«Certo, si parla molto di transizione, ma è una realtà, questa, che il mercato accetta con una certa fatica. Mi riferisco ad esempio alla normativa ESG, Environmental, Social and Governance. Talvolta mi chiedo se non sia un po’ come parlare della pace nel mondo. Ovvio che tutti sono favorevoli all’argomento, ma dire che tante imprese siano oggi orientate concretamente a questi principi, credo sia prematuro, vista anche la prevalenza dei tanti aspetti formali sulla sostanza. A ciò aggiungo che un imprenditore con la “I” maiuscola non dovrebbe aver bisogno di qualcuno che imponga dall’alto come comportarsi nei confronti di ambiente, risorse umane, trasparenza e responsabilità. Sono concetti che dovrebbero essere già vissuti come postulati per chi fa impresa».

La transizione, specie a Torino, riguarda in particolar modo il settore dell’automotive, cuore dell’economia del nostro territorio per decenni…

«Il problema è che la Torino dell’automobile sta scontando le politiche, risultate inadeguate, del Green Deal. Anche in questo ambito i principi sono validi, ma il mercato spesso non li accoglie con la stessa velocità. Imporre regole, dettate più che altro da un ambientalismo ideologico, senza tenere conto della realtà economica, porta a squilibri. Se il mercato non è disposto ad accettare questi cambiamenti, allora è inutile imporre indicazioni: infatti l’elettrico fatica e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. I costruttori hanno investito miliardi nel settore, investimenti che verranno ripagati (se mai verranno ripagati) di qui a chissà quanti anni invece che nei classici otto/dieci. Come spiegarlo agli investitori? Tanto più che c’è un aspetto pratico: in questi giorni di calura eccezionale sono sotto gli occhi di tutti i continui black out da iperconsumo dei condizionatori. Pensate cosa succederebbe se si aggiungesse la ricarica notturna di centinaia e centinaia di vetture elettriche. A dispetto di quella che era la visione iniziale, probabilmente potranno prendere piede le sole vetture elettriche di piccole dimensioni, ideali per l’uso urbano. Tuttavia nessuno in Europa ha il coraggio di alzare la mano e dire “abbiamo scherzato” (o “ci siamo sbagliati”, che in questo caso è la stessa cosa). Un tempo si diceva che gli Stati Uniti inventano, la Cina copia e l’Europa regolamenta: purtroppo il terzo detto è ancora molto attuale».

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Eppure Torino ha avuto, secondo molti, la forza di allontanarsi dalla dipendenza rispetto a un’economia totalmente industriale e guardare a servizi, cultura e innovazione. È questo il futuro della città secondo lei?

«L’importanza dell’innovazione a Torino è evidente a tutti e una grande fonte di vanto tra aerospaziale e biomedicale, tanto per portare alcuni esempi. Parallelamente, sempre parlando di innovazione, il tasso di mortalità delle startup è altissimo e questo dovrebbe essere fonte di riflessione. Di sola cultura e servizi, invece, e purtroppo, non vive nessuno. Ricordiamoci che non può esserci il terziario se mancano il settore primario e secondario. Certamente molto si è fatto nel settore dei servizi, ma c’è ancora da migliorare: basti pensare all’offerta alberghiera. Un settore che vede il sold out durante le ATP Finals, ma che poi resta semivuoto durante buona parte dell’anno, soprattutto se guardiamo a 4 e 5 stelle. Ed è già un aspetto molto positivo che il famoso Golden Palace sia stato ora raccolto nella sua eredità da Hilton».

In questo contesto, qual è allora il ruolo delle PMI piemontesi nella creazione di un’economia più resiliente e innovativa?

«Le piccole e medie imprese piemontesi mantengono il loro ruolo centrale nel rendere il tessuto imprenditoriale del territorio sano e forte. Il loro limite è che difficilmente diventano attrattive per gli investitori, ma, allo stesso tempo, nella loro impareggiabile flessibilità, possono essere al centro di un sistema che porta vantaggi su più fronti. Pensiamo alla provincia di Cuneo, una delle zone più ricche della regione, dove si è riusciti a creare il connubio perfetto tra turismo, eccellenze gastronomiche e industria. Per Torino si dovrebbe costruire un progetto che colleghi, ad esempio, il turismo congressuale con quello enogastronomico (che è maggiormente circoscritto a Langhe e Monferrato). Allo stesso tempo le PMI sanno di non potersi limitare al loro giardino, devono guardare avanti, innovare, evolversi, evitando così scenari più cupi».

Massimo Boidi - Studio Boidi & Partners

Ci sono settori tradizionali che secondo lei hanno ancora un futuro competitivo in Piemonte, magari attraverso la riconversione o l’innovazione dei processi?

«Confermo la mia idea che il settore della componentistica auto resti una parte d’eccellenza riconosciuta ovunque. Non possiamo negarlo: l’automotive è sempre stato il settore trainante per Torino e per l’economia più in generale, e lo è ancora. Senza questo non c’è lavoro, e quindi non c’è il lavoratore che compra casa e chiede il mutuo, non c’è il lavoratore che va al ristorante o compra vestiti nuovi. Certo l’esigenza di innovarsi è evidente anche per questo settore, ma è molto difficile con ordini che arrivano due settimane prima della consegna richiesta o vengono annullati due giorni prima. Perché? Perché i costruttori d’auto non sanno più come comportarsi, i loro piazzali sono pieni di auto elettriche e la domanda è in stallo. La programmazione e i budget diventano così una sorta di “mission impossible”. Se non sbaglio, Michele Ferrero soleva dire “i business plan non servono, perché somme esatte di numeri sbagliati”. Siamo più o meno in questa situazione».

Dal suo punto di vista professionale, quali strumenti fiscali o normativi sarebbero più utili per sostenere le imprese in questo contesto?

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«Difficile dirlo, nel senso che non possiamo certo incolpare le politiche locali, né quelle nazionali. Se i soldi scarseggiano, è difficile progettare scenari di sviluppo. Piuttosto la politica dovrebbe evitare di essere d’ostacolo al mercato che, al contrario, andrebbe agevolato. Mi riferisco a un mercato inteso come consumatore in primis e poi come imprese. Davvero oggi fare impresa è… un’impresa! In Italia ancora oggi il paradigma è “tutto è vietato tranne ciò che è permesso”, mentre dovrebbe tendere a diventare “tutto è permesso tranne ciò che è vietato”. Bisogna snellire i processi, non si possono aspettare anni per avere il permesso per un nuovo insediamento produttivo. Questo è il mio pensiero».

Massimo Boidi con i figli Michela e Marco
Massimo Boidi con i figli Michela e Marco

Parliamo di futuro: quali sono, secondo lei, gli ostacoli principali all’imprenditorialità giovanile in Piemonte?

«Per i giovani è davvero difficile immaginare il futuro. E quando si prende coraggio e si prova a fare impresa, ecco che ci si scontra con le difficoltà. Lo dimostra il fallimento di tante startup che, purtroppo, non possono essere tutte Satispay. Come agevolarli? Il discorso è sempre lo stesso: la voglia di fare, di innovare, di creare, nasce naturale quando il mercato tira».

Sempre con lo sguardo ai giovani, come vede la collaborazione tra imprese e istituzioni scolastiche/universitarie?

«Qui a Torino abbiamo a disposizione delle vere eccellenze universitarie. Ciò che è sbagliato è il sistema di formazione attuale: da parte mia eliminerei la laurea triennale, che non garantisce una formazione sufficiente per affrontare il mercato del lavoro. Perché le imprese chiedono persone specializzate in grado di lavorare senza troppo apprendistato: questa formazione deve essere fatta sì durante gli studi, ma ci vuole il giusto tempo per permettere agli studenti di apprendere e lo si fa fino alla laurea specialistica inclusa. Tanto più che si va verso un mondo iperspecializzato, la tuttologia è finita. Lo vedo anche nella mia professione: c’è chi si occupa di societario, chi di Terzo settore, chi di crisi d’impresa».

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Un’ultima riflessione sul futuro della Torino che lavora.

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«Non vorrei che da questa intervista risultasse un punto di vista troppo pessimista. Io sono ottimista di natura, a Torino sono nato, cresciuto e ancora credo nelle sue potenzialità. Un segno concreto della mia fiducia nel futuro è il trasferimento, previsto alla fine del 2026, della nostra sede in Cit Turin, dopo 76 anni in via Andrea Doria, visto che, entro la fine di quest’anno, finalizzeremo l’acquisto di un suggestivo palazzo liberty, oggi adibito a hotel. È un investimento importante, ma è un investimento anche per i miei figli, che oggi lavorano con me in Studio e rappresentano la quarta generazione. A Torino ci sono tante occasioni, non demoralizziamo i giovani. Continuiamo a costruire».

(foto MARCO CARULLI)



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