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Nel tentativo di tutelare i lavoratori dell’edilizia dalle ondate di calore estive, nelle scorse settimane molte regioni hanno adottato misure emergenziali simili, che sospendono il lavoro all’aperto nelle ore in cui fa più caldo: sono utili a ridurre gli infortuni, ma troppo generiche per tenere conto dell’eterogeneità delle mansioni. Manca una legge nazionale che trovi un compromesso tra le interruzioni dei cantieri per diverse ore e le esigenze di imprese e operai, che se non lavorano possono trovarsi in sostanza in due condizioni: o ricevono qualche forma di sostegno al reddito (con la cassa integrazione), ma sempre meno del loro stipendio normale, oppure non guadagnano proprio.
Durante i giorni segnalati “ad alto rischio”, per esempio, l’ordinanza della Regione Lombardia impone dal 2 luglio la sospensione dei lavori all’aperto con attività fisica “intensa” nei cantieri, nelle cave, nei campi e nei vivai, dalle 12:30 alle 16. È una misura di prevenzione pensata per proteggere alcune categorie di lavoratori giudicati più esposti al sole e alle alte temperature. Anche se ciascuna si è dovuta muovere per conto proprio, in assenza di un coordinamento nazionale, finora gran parte delle regioni ha adottato provvedimenti simili, pur con qualche piccola variazione nelle fasce orarie, nelle categorie professionali e nella durata del provvedimento. Alcune l’hanno estesa anche ai rider, i fattorini che si occupano delle consegne.
A seguito dell’ordinanza della Regione Lombardia, giovedì 3 luglio i lavoratori a Segrate hanno dovuto sospendere le attività alle 12:30 (Simone Fant/il Post)
«La salute deve essere una priorità, ma così si rischia di mettere in ginocchio un intero sistema», dice Daniele Dianese, responsabile di cantiere di un’impresa edile, che il 3 luglio ha interrotto la costruzione di una palazzina vicino a Melzo, un comune di 20mila abitanti della provincia di Milano. Dianese avrebbe preferito misure diverse, per esempio anticipare nei giorni più caldi l’orario di inizio dei lavori che, in genere, per attività rumorose come l’edilizia è consentito dai comuni solo a partire dalle 8 del mattino. Non è l’unico a essersene lamentato.
Per tante aziende sospendere i cantieri alle 12:30 significa concludere prima la giornata, senza possibilità di riprendere nel pomeriggio, con il rischio concreto di accumulare ritardi nei progetti. Secondo un carpentiere bergamasco incontrato in un cantiere nei dintorni di Milano non ha senso aspettare tre ore e ripartire alle 16, quando «il sole picchia forte comunque».
Il suo commento riassume le perplessità di molti lavoratori, anche se ovviamente le istituzioni scelgono le ore della giornata in cui sospendere le attività con dei criteri rigorosi: la Direzione Generale Welfare della Regione Lombardia, che si occupa della questione, dice che le fasce orarie indicate nell’ordinanza sono relative ai momenti di «più alta esposizione a calore e radiazioni, pericolosa per chiunque, lavoratore e cittadino».
Le temperature più elevate della giornata vengono generalmente registrate tra mezzogiorno e il primo pomeriggio, fascia oraria di massima esposizione solare. Ma in effetti non è detto che dopo le 16 le situazioni di disagio per i lavoratori si riducano. «I tassi di umidità possono aumentare a tal punto da creare rischi maggiori rispetto alle ore indicate dalle ordinanze», spiega Marco Morabito, ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).
Uno studio del 2022 condotto dall’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, più noto con la sua sigla INAIL, e dal CNR ha registrato tra il 2014 e il 2019 una media di 520 infortuni attribuibili al caldo estremo ogni anno. Secondo Morabito, coautore dello studio, le ordinanze portano a ridurre il tasso di infortuni, ma dovrebbero essere calibrate su scenari di esposizione al caldo e lavori più specifici.
Nel 2023 l’INAIL creò la piattaforma Worklimate 2.0 con l’obiettivo di fornire ad aziende e lavoratori bollettini meteo aggiornati quotidianamente e raccomandazioni su quante volte idratarsi e fare pause, sensibilizzando allo stesso tempo i lavoratori su patologie come il colpo di calore, l’esaurimento e la sincope dovuta al caldo. Senza le necessarie precauzioni le persone esposte a lungo ai raggi solari rischiano anche di sviluppare tumori alla pelle.
A seguito dei provvedimenti disomogenei e temporanei delle regioni, il ministero del Lavoro, i sindacati e le associazioni dei datori di lavoro hanno firmato un accordo, per la verità piuttosto vago, per adattare le condizioni degli operai edili agli eventi climatici estremi, tra cui il caldo.
Operai in una delle cosiddette “baracche”, come le chiamano nel settore edile: prefabbricati temporanei in cui i lavoratori possono mangiare e riposare, al riparo dal caldo (Simone Fant/il Post)
«Gli estremi climatici sono la nuova normalità, accogliamo il protocollo come misura di sensibilizzazione importante, ma servirebbe qualcosa di più strutturato come una legge nazionale», dice Federica Brancaccio, presidente dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili, l’ANCE. Anche i sindacati chiedono di introdurre un obbligo di legge, ma con criteri più stringenti: fermare i cantieri ogni volta che c’è un rischio climatico alto, cioè in presenza di temperature superiori a 30 gradi e di un tasso di umidità di oltre il 70 per cento, includendo anche i luoghi al chiuso come le cementerie e le acciaierie. In questi posti infatti per via dei processi produttivi le temperature sono già molto alte.
A breve i sindacati e i rappresentanti delle imprese si incontreranno per definire un piano più mirato, in grado di tenere conto delle diverse esigenze e specificità del settore edile, in cui in Italia operano oltre 500 mila imprese e quasi 1,5 milioni di addetti, con decine di specializzazioni diverse. Per esempio: il “cappottista” si occupa dell’isolamento termico degli edifici con lo scopo di ridurne la dispersione di calore; il muratore, tra le altre cose, realizza le fondamenta e la muratura; il ferraiolo lavora il ferro per le costruzioni in cemento armato. Queste mansioni difficilmente possono essere trattate allo stesso modo: comportano ritmi di lavoro e criticità legate al caldo piuttosto diversi tra loro, aspetti di cui né le ordinanze regionali né il protocollo del governo tengono adeguatamente conto.
«Noi siamo fortunati, abbiamo la possibilità di lavorare all’ombra. Il caldo si sente ma è ancora sopportabile», dice Roberto Bresciani, che si occupa di isolare termicamente una palazzina in costruzione in provincia di Milano. Con un po’ di buon senso e di esperienza pianifica le attività in base a “come gira il sole”, prendendosi spesso qualche pausa per riposare e rifocillarsi. La sua mansione non lo espone a periodi prolungati al sole, uno dei criteri per cui l’ordinanza impone lo stop ai cantieri. Ma l’azienda per cui lavora, che impiega anche altri tipi di professionisti, ha deciso precauzionalmente di interrompere comunque i lavori. «Sono un libero professionista, se mi tolgono tre ore e mezza di lavoro perdo quasi il 40 per cento del salario giornaliero, e non c’è nessuna cassa integrazione che mi supporti», dice Bresciani.
Roberto Bresciani in un cantiere in provincia di Milano (Simone Fant/il Post)
La cassa integrazione è un ammortizzatore sociale erogato dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) per sostenere i lavoratori dipendenti in caso di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, talvolta per consentire alle aziende di superare momenti di crisi.
Tra le varie tipologie a disposizione delle aziende, la Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO) viene riconosciuta alle imprese edili nelle ore in cui le temperature percepite superano i 35 gradi e nelle giornate classificate a elevato rischio.
La CIGO prevede un’indennità ai dipendenti pari all’80 per cento della retribuzione persa per le ore di inattività. Può essere concessa dall’INPS fino a un massimo complessivo di 52 settimane in un biennio per varie ragioni: a causa della mancanza di lavoro o delle materie prime, della conclusione dei lavori anticipata, oppure per via di scioperi.
«Se dovessimo affrontare un mese di emergenza climatica, rischieremmo di mangiarci gran parte delle 52 settimane a disposizione», dice Federica Brancaccio che a nome delle imprese vorrebbe veder aumentare il totale delle ore di cassa integrazione.
Un operaio esegue lavori di carpenteria sotto il sole, in provincia di Milano (Simone Fant/il Post)
Secondo Giulia Bartoli, segretaria nazionale del sindacato di categoria FILLEA-CGIL, sono però ancora poche le aziende a chiederla. In parte perché devono pagare direttamente la cassa integrazione ai dipendenti e aspettare il conguaglio dall’INPS, oppure per evitare l’interruzione dei lavori e quindi un rallentamento della produttività. Tre anni fa l’INAIL e l’INPS pubblicarono le istruzioni su come domandare la cassa integrazione.
«Questa legge è una cazzata» dice un ferraiolo, dopo aver finito di lavorare a petto nudo in un cantiere nella periferia di Segrate, piccola città dell’area metropolitana di Milano. Non sembra importargli molto del caldo, né degli ammortizzatori sociali: vuole solo lavorare senza perdere soldi.
Dello stesso avviso è un altro lavoratore arrivato 5 anni fa dall’Egitto, dove aveva imparato a fare il muratore da bambino. Si occupa di intonacare le case e smontare i ponteggi, impalcature temporanee indispensabili per la costruzione di qualsiasi edificio, spesso esposte alla luce diretta del sole. Non sa nulla dell’ordinanza regionale, ma non rinuncerebbe mai a parte del salario per un caldo a cui dice di saper facilmente resistere.
Secondo Andrea Perego, funzionario di FILLEA-CGIL, non è facile sensibilizzare i lavoratori sui rischi legati al caldo, perché «la prima preoccupazione rimane il salario».
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