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Milano, le città e la giusta battaglia contro le rendite che la sinistra non combatte


Bisognerebbe studiare e riflettere su quali sono gli strumenti e gli obiettivi, anche urbanistici, capaci di accrescere i beni collettivi e le economie esterne per le imprese e per le famiglie che sostengono lo sviluppo e contrastano la sua tendenza a trasformarsi in rendita

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Il caso di Milano mostra come sia difficile nelle grandi città contemporanee difendere innovazione e sviluppo contrastando le rendite. Le città sono da sempre il motore dello sviluppo perché sono il cuore dell’innovazione e della mobilità sociale («l’aria delle città rende liberi»), ma non tutte.

Alcune si configurano come «città di produttori» di nuovi beni e servizi, altre come «città di consumatori» che vivono di rendita e di trasferimenti (secondo la nota distinzione di Max Weber). I due tipi di città non sono esclusivi. I loro caratteri si combinano nei casi concreti.

Innovazione e rendita

L’innovazione può dunque convivere con la rendita, almeno fino a quando la città riesce a far prevalere lo sviluppo. Infatti, la crescita di nuove idee e attività alimenta essa stessa la formazione di rendite, perché aumenta la domanda di città da parte di imprese, di singoli e di famiglie che vogliono inserirsi nel gioco dello sviluppo.

Ma questo a sua volta determina la formazione di rendite da parte di chi controlla risorse chiave per entrare, a partire dallo spazio. C’è dunque il rischio che le rendite, se non regolate e contrastate, creino opportunità di investimento delle risorse che si formano con l’innovazione verso aree meno rischiose e più redditizie erodendo così, alla lunga, le basi non soltanto economiche ma anche sociali dello sviluppo.

Infatti, ciò aumenta anche le fratture sociali tra i più abbienti che possono permettersi i costi più alti e i gruppi sociali più deboli che debbono accontentarsi di vivere segregati nelle periferie, con condizioni di lavoro e di vita sempre più pesanti e degradate.

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Il “grande esodo”

Sappiamo che proprio in questi contesti è maturata una componente importante del “grande esodo” delle classi popolari dalla sinistra tradizionale verso la nuova destra populista. Che non ha fatto però nulla per contrastare davvero la rendita e le fratture sociali.

E la sinistra? Ha spesso avuto il controllo del governo locale, come a Milano nella fase più recente, ma sembra non essersi posta concretamente il problema di come difendere lo sviluppo dalla rendita che si rafforzava. Ha amministrato ma non governato (come ha scritto Emanuele Felice).

Intendiamoci, questo non è un problema solo della sinistra italiana. Riguarda la capacità di rappresentare su nuove basi i gruppi sociali più deboli e di contrastare le disuguaglianze: una sfida centrale per tutte le forze della sinistra nelle democrazie avanzate. E inoltre è un problema che non si risolve solo con il volontarismo locale senza un intervento coerente dello stato centrale.

Il nuovo corso del Pd

Detto questo colpisce però che il nuovo corso del Pd, che ha promesso da subito di rinnovare la rappresentanza e di puntare a uno sviluppo inclusivo, non si sia posto l’obiettivo di un approfondimento specifico sul piano programmatico del problema cruciale delle città.

In questo modo avrebbe avuto una leva ben più solida per distinguere il piano giuridico da quello politico nella vicenda milanese. E per evitare di trovarsi nella condizione di evidente difficoltà a dover sostenere il sindaco e la sua giunta.

La segretaria del Pd, Elly Schlein, avrebbe potuto dire: sul piano giuridico valuti la magistratura, ma su quello politico non possiamo sposare una politica urbanistica che per la sua governance (distribuzione anomala delle competenze con sospetto di forti conflitti di interessi) e per i suoi contenuti finisce per fare l’opposto di una regolazione delle rendite a sostegno dello sviluppo e della coesione sociale.

Questi obiettivi non sono facili da realizzare, ma non sono certo riducibili alla coppia “grattacieli facili e più welfare in periferia”, secondo una logica «compensativa» (come l’ha chiamata Franco Monaco). Bisognerebbe studiare e riflettere su quali sono gli strumenti e gli obiettivi, anche urbanistici, capaci di accrescere i beni collettivi e le economie esterne per le imprese e per le famiglie che sostengono lo sviluppo e contrastano la sua tendenza a trasformarsi in rendita. Senza una bussola si resta inevitabilmente prigionieri della “ragione di partito”, con la quale non si va molto lontano.

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