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Ex Ilva, gli scenari in vista del tavolo con Urso del 31 luglio: il timore dello smembramento


Il governo si trova a un crocevia: rilanciare un asset strategico attraverso un partner industriale credibile o cedere alla frammentazione produttiva, con il rischio dello smembramento degli impianti. I sindacati intanto spingono per la nazionalizzazione

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Il destino dell’ex Ilva di Taranto, pilastro della siderurgia italiana, si avvicina a un bivio decisivo in vista del tavolo ministeriale del 31 luglio 2025. Con le trattative con Baku Steel ormai naufragate e l’annuncio di una nuova gara per la cessione dello stabilimento, il governo si trova a un crocevia: rilanciare un asset strategico attraverso un partner industriale credibile o cedere alla frammentazione produttiva, con il rischio di una “mini-Ilva” e lo smembramento degli impianti.

Sullo sfondo, i sindacati spingono con forza per la nazionalizzazione, vista come l’unica strada per garantire occupazione, transizione ecologica e continuità industriale.

Lo spettro dello “spezzatino” 

L’ipotesi più temuta per l’ex Ilva è quella di una drastica riduzione della capacità produttiva, trasformando lo stabilimento in una “mini-Ilva” con una produzione limitata a 4-6 milioni di tonnellate di acciaio annue, contro gli attuali otto milioni di capacità teorica. Questo scenario, paventato da analisti e sindacati, sarebbe il preludio a una frammentazione del gruppo, il cosiddetto “spezzatino”. Gli stabilimenti di Taranto, Genova e Novi Ligure potrebbero essere ceduti separatamente, con gruppi come Marcegaglia o altri player minori pronti ad acquisire gli asset più appetibili, come le linee di finitura, lasciando Taranto a un’agonia produttiva.

Un simile esito avrebbe conseguenze drammatiche: la perdita di migliaia di posti di lavoro, con i 10mila dipendenti attuali (di cui 3.000 già in cassa integrazione) a rischio esubero, e un ridimensionamento irreversibile del ruolo dell’Italia nel mercato siderurgico europeo.

La nuova gara annunciata dal ministro Adolfo Urso, che mira a individuare un partner industriale entro il 2026, potrebbe non scongiurare questo pericolo. Senza un piano industriale chiaro, che includa investimenti massicci nella decarbonizzazione e nella manutenzione degli impianti, il rischio è che la gara attragga offerte speculative, incapaci di garantire una visione di lungo termine. La transizione verso forni elettrici alimentati con preridotto (Dri), obiettivo centrale del governo, richiede almeno 3-4 miliardi di euro e un orizzonte temporale di 7-8 anni.

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Ma senza un’autorizzazione ambientale (Aia) adeguata, attesa al tavolo del 31 luglio, e senza garanzie sulla continuità produttiva, l’ex Ilva rischia di diventare un peso finanziario insostenibile, con perdite mensili che già oggi si aggirano tra i 40 e i 50 milioni di euro.

Nazionalizzazione, una soluzione possibile?

Di fronte a questo scenario, i sindacati – da Fim a Fiom, da Uilm a Usb– lanciano un grido d’allarme: senza un intervento pubblico diretto, l’ex Ilva è destinata al collasso. La nazionalizzazione è diventata la parola d’ordine, con le sigle sindacali che chiedono allo stato di assumere il controllo dello stabilimento per garantire tre priorità: la tutela occupazionale, la manutenzione degli impianti e un piano di decarbonizzazione credibile. La proposta trova sostegno anche tra alcuni analisti, che guardano al modello di British Steel, nazionalizzata nel Regno Unito per preservare un settore strategico.

La nazionalizzazione, tuttavia, incontra ostacoli politici e giuridici. Il ministro Urso ha escluso questa opzione, sottolineando che l’ex Ilva non rientra nelle categorie di servizi pubblici essenziali o monopoli previste dall’articolo 43 della Costituzione. Inoltre, l’esperienza di Invitalia come azionista di minoranza in Acciaierie d’Italia è stata giudicata poco efficace, alimentando lo scetticismo del governo. Eppure, i sindacati insistono: un intervento pubblico temporaneo potrebbe stabilizzare lo stabilimento, finanziare la transizione ecologica e attrarre successivamente un partner privato con un piano industriale solido.

Verso il tavolo del 31 luglio

Il tavolo ministeriale del 31 luglio sarà cruciale per definire il futuro dell’ex Ilva. La regione Puglia, guidata da Michele Emiliano, e gli enti locali di Taranto chiedono garanzie stringenti su salute e ambiente, con l’approvazione della nuova Aia come condizione imprescindibile per qualsiasi accordo. Sul tavolo ci sarà anche la proposta di dichiarare gli impianti di interesse nazionale, un’ipotesi avanzata dal leader di Azione ed ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, per superare i veti locali e accelerare le decisioni.

Le aspettative sono alte, ma il rischio di un nulla di fatto è concreto. Senza un partner industriale pronto a investire o un intervento pubblico deciso, l’ex Ilva potrebbe scivolare verso un declino irreversibile. La produzione ridotta, gli impianti obsoleti e la mancanza di liquidità stanno già spingendo lo stabilimento verso una crisi strutturale. La “mini-Ilva” non è solo un’ipotesi economica, ma una minaccia al tessuto sociale di Taranto e al ruolo dell’Italia come potenza industriale.

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