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«Giusto evitare lo scontro frontale»


Alla fine il bicchiere è mezzo pieno. A giudicarlo così non è la sola Giorgia Meloni ma l’intero governo, con una nota siglata a tarda sera dalla premier e dai suoi due vice, Antonio Tajani e Matteo Salvini, per promuovere l’accordo quadro siglato a Turnberry, in Scozia, da Donald Trump e Ursula von der Leyen. Un’intesa che mette fine a una guerra commerciale che va avanti da aprile a suon di colpi di scena e «che avrebbe avuto conseguenze imprevedibili». Per i tre leader i dazi al 15% sono «sostenibili» per il sistema Italia. Ma per reggere il colpo, che comunque l’Europa incassa, Meloni, Tajani e Salvini chiedono a Bruxelles di cambiare le regole del gioco, semplificando e dando un taglio alla burocrazia. Ma anche tendendo la mano ai mercati più colpiti dai rialzi alle dogane. «Siamo pronti ad attivare misure di sostegno a livello nazionale, ma chiediamo che vengano attivate anche a livello europeo, per quei settori che dovessero risentire particolarmente delle misure tariffarie statunitensi», chiedono con una sola voce Meloni, Tajani e Salvini.

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La trappola. Riconoscendosi il merito, assieme ad altri Stati membri, di aver lavorato «evitando di cadere nella trappola di chi chiedeva di alimentare uno scontro frontale tra le due sponde dell’Atlantico». Una postilla diretta alle opposizioni, ma che ad alcuni suona anche come un affondo contro la reazione muscolare invocata da Emmanuel Macron. La notizia della stretta di marno tra Trump e von der Leyen raggiunge Meloni mentre rientra nell’albergo di Addis Abeba, dove ieri è volata per presiedere il vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari. All’inizio la presidente del Consiglio prende tempo con i cronisti che l’attendono all’arrivo, vuole prima comprendere un accordo che presenta luci e ombre. Alcune attese, altre no. Che il tycoon avrebbe suonato la gran cassa del “buy american”, in barba ai danni d’immagine per l’Europa, a Roma come a Bruxelles era dato per scontato. Mentre l’annuncio di balzelli lasciati invariati per acciaio e alluminio – vale a dire al 50% – è arrivato come una doccia gelata. Anche se, fino all’ultimo minuto, i negoziati sulla rotta Washington-Bruxelles hanno assunto i caratteri di un giro della morte sulle montagne russe, in perfetto stile Trump. Ora però Roma vuole vederci chiaro. L’intesa siglata è sostenibile «soprattutto se questa percentuale ricomprende e non si somma ai dazi precedenti, come invece era previsto inizialmente», scrivono infatti Meloni e i suoi vice. Ovvero dazi flat, in grado di assorbire quelli già esistenti. Per intenderci, prima del famoso “liberation Day” al Parmigiano reggiano veniva imposta una percentuale del 25. Passare al 15% vorrebbe dire sforbiciarne il prezzo. O ingrossare i guadagni lungo la filiera. La premier attende di capire meglio. E per questo, già nelle prossime ore, sentirà la numero uno di Palazzo Berlaymont per comprendere fino in fondo dettagli e margini di manovra. Perché adesso si apre un’altra partita, per Roma altrettanto decisiva. Ruota attorno alla liste delle eccezioni, ovvero l’elenco dei prodotti che verranno graziati dalla mannaia pronta a calare alle dogane americane. Nei prossimi giorni, ad esempio, andranno concordati i prodotti agricoli per cui varrà l’accordo “zero per zero”. E lì l’Italia dovrà giocarsi il tutto per tutto, per mettere in sicurezza olio, pasta, vino, formaggi, salumi. Prodotti must del made in Italy nel mondo. E che vanno letteralmente a ruba dagli scaffali statunitensi. «Finita la fase dell’indeterminatezza – dice il ministro Franceco Lollobrigida al Messaggero, anche lui in missione in Etiopia – ora bisogna continuare il lavoro, passare alla fase applicativa. Dunque fare tutto il possibile per tutelare il made in Italy».

Altro elemento positivo, per Meloni, è mettere la parla fine alla fase dell’incertezza. Con i magazzini fermi nelle rimesse italiane oltreoceano in attesa di capire come spalmare i dazi lungo la filiera. Sotto traccia la speranza che The Donald cambi registro, scendendo a più miti consigli riguardo al rapporto con l’Europa. Per l’opposizione, invece, il bicchiere è desolatamente vuoto. Di «Caporetto» parla Giuseppe Conte, mentre Elly Schlein punta il dito contro quella che giudica una «fallimentare accondiscendenza».


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