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La politica monetaria miope della Bce


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La decisione “unanime” del board della Banca centrale europea, nella riunione del 24 luglio scorso, di lasciare invariati i tre tassi d’interesse di riferimento rispettivamente il 2 per cento i tassi di deposito, il 2,15 per cento le operazioni di rifinanziamento principali e il 2,4 per cento quello relativo ai prestiti marginali, suscita quantomeno delle perplessità sulla cosiddetta “politica monetaria” adottata dall’Istituto di emissione dell’euro. Decisione che gli operatori professionali davano per scontata. Tra le funzioni delle banche centrali, la “politica monetaria anticiclica” assume un’importanza fondamentale per la stabilizzazione dell’economia contrastando le variazioni classiche del ciclo economico ovvero l’espansione economica, la stagnazione e la recessione. È utile ricordare ai lettori che i poteri decisionali della Bce sono affidati a tre organi decisionali: il consiglio direttivo che comprende sei membri del Comitato esecutivo e i Governatori della banche centrali nazionali dell’area dell’euro; il Comitato Esecutivo di cui fa parte il presidente della Bce, il vicepresidente e quattro altri membri tutti nominati dai Capi Stato o di Governo dei Paesi dell’area dell’euro con un mandato di otto anni non rinnovabile e il Consiglio generale composto dal presidente, dal vicepresidente e dai governatori delle banche centrali nazionali di tutti Gli Stati membri dell’Unione europea.

Sulla carta, la massima espressione delle competenze in tema di politica monetaria. In realtà, le decisioni che vengono prese in materia dei tassi d’interessi dall’attuale governance della Bce sono effettuate ex post sulla base dei dati relativi all’inflazione nell’eurozona. La presidente della Bce Christine Lagarde, nella consueta conferenza stampa, che segue la decisione di lasciare i tassi invariati, ha ripetuto la solita formula di rito: “La Bce continuerà a seguire un approccio guidato dei dati prendendo decisioni di riunione in riunione senza vincolarsi ad un particolare percorso dei tassi”. Se la politica monetaria della Bce è subordinata ai “dati” potremmo affidare le decisioni ad un algoritmo. Non ci sarebbero sorprese per i mercati finanziari, basterebbe monitorare l’andamento dei “dati” propedeutici alle decisioni per conoscere l’andamento dei tassi d’interesse di riferimento che saranno praticati dalla Banca centrale europea. Non ci sono più i governatori delle banche Centrali di una volta; quando la politica monetaria era l’architrave delle scelte strategiche di macroeconomia attuate attraverso le manovre sui tassi d’interesse che prevedevano: l’espansione creditizia (riduzione dei tassi d’interesse) per stimolare l’economia oppure le restrizioni creditizie per drenare liquidità dal sistema economico per raffreddare l’inflazione. Gli effetti sull’economia di tassi bassi si traducevano in un incremento della propensione al consumo delle famiglie e degli investimenti delle imprese. Più consumi e più investimenti significava più produzione e crescita della ricchezza nazionale.

A tassi più alti corrispondeva una maggiore propensione al risparmio delle famiglie e una conseguente riduzione degli investimenti delle imprese. Meno consumi, meno produzione e meno investimenti significava anche il raffreddamento delle pressioni inflazionistiche e meno Pil. Questa governance della Banca centrale europea, ha attuato una feroce manovra restrittiva sui tassi d’interesse sebbene l’esplosione dell’inflazione non era generata dalla espansione economica ma bensì dalla inflazione importata causata dalla guerra della Russia contro l’Ucraina che aveva fatto esplodere i prezzi dell’energia prodotta da fonti fossi quali: petrolio e gas. Oggi, importiamo deflazione per la riduzione dei prezzi dell’energia, la forte rivalutazione del euro rispetto al dollaro Usa che dagli inizi del 2025 si è apprezzato di oltre il 13 per cento. La moneta utilizzata per gli scambi internazionali sul gas ed il petrolio è il dollaro Usa e quindi il favorevole rapporto di cambio euro – dollaro riduce il prezzo della energia importata. Altro elemento significativo che avrebbe giustificato un diverso approccio della Bce sono i dazi doganali che saranno praticati dagli Stati Uniti sulle merci europee.

Parrebbe che si troverà una soluzione alla guerra commerciale sui dazi, tra gli Usa e la Ue, stipulando un accordo che preveda l’applicazione al 15 per cento sulle merci esportate dall’Europa verso gli Stati Uniti. Il dubbio è se l’attuale 4,8 per cento di dazi reciproci applicati alle importazioni ed esportazioni da e verso gli Stati Uniti siano inclusi nei 15 per cento. Ovviamente, la differenza è sostanziale in quanto se verranno inclusi gli attuali dazi praticati negli scambi commerciali del 4,8 per cento, l’aggravio si limiterebbe ad un aumento dei diritti di confine Usa del 10,2 per cento. Per ridurre gli effetti negativi sull’economia europea causati dal combinato disposto dei dazi doganali e della svalutazione del dollaro, la Bce avrebbe dovuto ridurre i tassi di riferimento quantomeno per cercare di riequilibrare il rapporto di cambio euro-dollaro che è un ulteriore dazio che pagano le imprese europee per esportare negli Stati Uniti. Ancora una volta una politica monetaria suicida della Bce che può causare non solo una riduzione del Pil ma anche la deflazione in Europa

Aggiornato il 28 luglio 2025 alle ore 11:14

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