Da lontano, l’accordo tra Unione europea e Stati Uniti sui dazi sembra la resa politica ed economica di Bruxelles al bullo, Donald Trump. Ma nel chicken game che il presidente americano impone ai suoi alleati (quel gioco in cui due auto si lanciano l’una contro l’altra e perde chi sterza per primo), a uscire davvero malconcio, stavolta, non è l’Europa. È Trump, che, pur cantando vittoria, ha imposto dazi che graveranno in gran parte sulle imprese e sui consumatori americani.
L’alternativa, per Bruxelles, non era un accordo migliore. Era l’incertezza. E in economia, l’incertezza è un dazio più subdolo di qualsiasi tariffa. Continuare a trattare avrebbe significato lasciare le imprese europee in un limbo operativo, senza sapere quali beni sarebbero stati colpiti, con quali tariffe e per quanto tempo. Il rischio concreto di una guerra commerciale con la prima economia mondiale, in un momento di crescita fiacca e di forti tensioni globali, era un pericolo che l’Unione europea non poteva permettersi.
L’accordo firmato domenica non è un atto di forza, ma di realismo. Il dazio medio del quindici per cento sulle esportazioni europee verso gli Stati Uniti – con picchi del cinquanta per cento per acciaio e alluminio – rappresenta un aggravio significativo rispetto al regime pre-Trump. Ma alcune delle voci più strategiche sono state escluse: aerospazio, farmaceutica, semiconduttori, materie prime critiche. Settori che costituiscono il cuore industriale e tecnologico dell’export europeo. E non è poco.
In cambio, Bruxelles ha dovuto accettare anche un maxi-pacchetto di acquisti e investimenti: settecentocinquanta miliardi di dollari in prodotti energetici statunitensi e seicento miliardi in attrezzature militari e tecnologiche. Ma dietro l’enfasi propagandistica di Trump, questi numeri riflettono in gran parte flussi già in corso. Si tratta, più che altro, di un consolidamento di tendenze preesistenti, venduto come svolta storica da Trump. Non è la prima volta.
L’economista Carlo Alberto Carnevale Maffè, ha spiegato benissimo su X perché i dazi imposti rischiano di danneggiare più gli Stati Uniti che l’Unione Europea: «Il pass-through su soggetti USA dei dazi rilevato finora è di oltre l’ottantadue per cento». In pratica, il cinquantatré virgola due per cento del costo delle tariffe sarà scaricato sulle imprese americane importatrici, il ventinove virgola uno per cento ricadrà sui consumatori sotto forma di prezzi più alti, e solo il diciassette virgola sette per cento peserà direttamente sulle aziende esportatrici europee.
«Questi dazi sono irrazionali, controproducenti e illegali in base agli accordi Wto», ha aggiunto. Ma soprattutto, avverte, «i danni maggiori non derivano dai dazi, ma dall’incertezza profonda che ha bloccato e sta bloccando gli investimenti a livello globale». L’idea di un rilancio dell’industria americana incentivano la produzione interna per colmare le minore importazioni appare, secondo l’economista, del tutto irrealistica, viste le carenze strutturali del sistema produttivo statunitense.
Per i principali esportatori europei, l’impatto sarà asimmetrico ma non devastante. Secondo Eurostat, nel 2024 l’Unione ha esportato verso gli Stati Uniti beni per oltre cinquecentosettanta miliardi di dollari. Di questi, circa il 22,5 per cento è rappresentato da prodotti farmaceutici, il 9,6 per cento da veicoli stradali e un ulteriore diciassette per cento da macchinari industriali ed elettrici. Le prime due categorie godranno di esenzioni o aliquote ridotte, mentre il comparto automobilistico – cruciale soprattutto per la Germania – dovrà affrontare dazi pieni. Volkswagen AG ha già stimato una perdita di 1,3 miliardi di euro solo nel primo semestre dell’anno, e la federazione industriale tedesca BDI ha parlato di «effetti potenzialmente devastanti» sul settore. Tuttavia, l’impatto complessivo, pur rilevante, sarà in parte compensato dalla stabilizzazione normativa e dalla tenuta dei mercati chiave.
Per l’Italia, che nel 2025 dovrebbe esportare verso gli Stati Uniti beni per circa settantacinque miliardi di dollari, il costo netto dei dazi – esclusi i settori esentati – è stimato in una compressione dei margini pari a circa 1,7 miliardi di euro. Le perdite più pesanti colpiranno l’export di acciaio e alluminio, con un valore annuo inferiore al miliardo di dollari ma soggetto a tariffe del cinquanta per cento, e un danno stimato intorno ai sessantasei milioni.
Ma, come osservano gli analisti, il vero rischio per l’export italiano non è l’imposizione diretta delle tariffe, quanto il possibile rallentamento della domanda americana e la perdita di competitività relativa su mercati terzi. Da qui la necessità, già evidenziata da diversi osservatori, di rafforzare, accordi di libero scambio con aree in espansione come Mercosur, India e Sud-Est asiatico, per diversificare la geografia commerciale del Paese e contenere gli effetti sistemici del protezionismo statunitense.
A ben guardare, quindi, l’Unione Europea ha sacrificato qualcosa sul piano politico ma ha protetto la sostanza economica. Ha evitato lo scontro frontale, ha mantenuto l’unità istituzionale e ha difeso le sue filiere industriali più avanzate. Ha perso un round, ma ha salvato la capacità di restare un attore credibile nel commercio internazionale.
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