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La permacultura sarà la prossima rivoluzione dei sistemi agricoli e alimentari?


Questo focus adatta alcuni dei contenuti presentati nel saggio “Come la permacultura sta cambiando il mondo”, pubblicato online dal nostro sito nell’ambito di Ecosistema Futuro. 

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Il 15% contro il 70%. Questo semplice confronto numerico racchiude cinquant’anni di rivoluzione silenziosa che sta trasformando il modo di pensare l’agricoltura, l’ecologia e il rapporto tra esseri umani ed ecosistemi.

Quando un albero piantato con metodi tradizionali ha meno di due possibilità su dieci di sopravvivere, mentre uno curato secondo i principi della permacultura ne ha sette, non stiamo più discutendo di filosofie alternative ma di una differenza pratica che può determinare il futuro della sicurezza alimentare planetaria.

La permacultura trae origine dall’intuizione pioneristica di Masanobu Fukuoka che negli anni ’30 abbandonò la carriera di microbiologo per sviluppare “l’agricoltura del non-fare”, passando per la sistematizzazione teorica di Bill Mollison e David Holmgren nelle remote foreste della Tasmania negli anni ’70, fino agli sviluppi contemporanei che vedono principi permaculturali applicati in progetti governativi di portata continentale.

Bill Mollison, uno dei padri della permacultura

Tutto questo mentre l’agricoltura industriale mostra crescenti segni di stress sotto la pressione dei cambiamenti climatici, approcci basati sulla diversità biologica, la gestione intelligente dell’acqua e l’integrazione tra specie diverse stanno ottenendo risultati straordinari. I casi di studio sono tanti: dall’Africa al Brasile, dalla Cina all’India.

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Per esempio, Yin Yuzhen, una contadina della Mongolia Interna senza istruzione formale, ha trasformato porzioni del deserto del Gobi ottenendo tassi di sopravvivenza degli alberi del 70%, risultati che poi sono stati studiati e adottati dal programma nazionale cinese di riforestazione. La Water Cup indiana ha mobilitato seimila villaggi in una competizione che porta alla costruzione di sistemi di raccolta idrica capaci di trattenere 550 miliardi di litri d’acqua. Il Loess Plateau cinese, un tempo deserto lunare, oggi ospita ecosistemi rigenerati che hanno triplicato i redditi delle famiglie contadine.

Uno degli elementi centrali che attraversa tutte le scuole di permacultura è la gestione dell’acqua. Anziché cercare di allontanarla rapidamente dal terreno, come fa l’agricoltura convenzionale, la permacultura mira a rallentarla, trattenerla e farla penetrare nel suolo. Lo strumento emblematico di questo approccio sono le swale, fosse livellari scavate seguendo le curve di livello del terreno. Queste strutture passive intercettano l’acqua piovana che scorre sulla superficie, permettendole di infiltrarsi lentamente nel terreno e ricaricare le falde acquifere invece di scorrere via causando erosione.

L’efficacia di questo approccio è diventata drammaticamente evidente durante la siccità che ha colpito la California tra il 2020 e il 2023. Mentre molte fattorie convenzionali si trovavano a fronteggiare terreni aridi e raccolti compromessi, le proprietà gestite secondo i principi della permacultura spiccavano come isole verdi in un paesaggio sempre più bruno. Avevano immagazzinato l’acqua quando era abbondante, creando una resilienza che i metodi convenzionali non potevano eguagliare.

Un altro principio fondamentale è il rifiuto dei fertilizzanti chimici e dell’aratura profonda, pratiche che nel lungo periodo degradano la struttura del suolo e ne riducono la fertilità naturale. La permacultura propone invece un approccio basato sulla diversità funzionale: integrare nel sistema piante con funzioni specifiche come le leguminose che fissano l’azoto atmosferico (trasformandolo in forme assimilabili dalle altre piante) o gli “accumulatori dinamici” che concentrano nei loro tessuti minerali specifici prelevati dal sottosuolo profondo. Quando queste piante vengono potate o muoiono naturalmente, rilasciano i nutrienti accumulati, rendendoli disponibili per le colture vicine. Questo principio di cooperazione tra diverse specie, anziché di competizione per risorse limitate, rappresenta forse la differenza più profonda tra la permacultura e l’agricoltura industriale.

Mentre quest’ultima cerca di semplificare gli ecosistemi fino alla monocoltura, la permacultura mira a creare sistemi complessi, multi-stratificati e interdipendenti che si auto-mantengono e si auto-fertilizzano, rispecchiando il funzionamento degli ecosistemi naturali ma orientandoli verso produzioni utili all’uomo.

Anche la gestione degli animali nella permacultura ribalta la logica dell’allevamento industriale. Invece di confinare gli animali e portare loro il cibo, la permacultura li fa muovere strategicamente nel paesaggio, trasformando i loro comportamenti naturali in servizi ecologici. L’esempio più emblematico è il “chicken tractor” – il trattore a galline. Si tratta di un pollaio mobile che viene spostato sistematicamente dove serve preparare il terreno per le semine future. Le galline grattano, mangiano semi di infestanti, fertilizzano con i loro escrementi e alla fine lasciano dietro di sé un suolo smosso e arricchito. È agricoltura che sfrutta l’etologia invece di contrastarla.

La permacultura offre dunque prospettive di sviluppo, ma per trovare una diffusione più ampia dovrà superare alcuni limiti evidenti. Dalla diffidenza verso la ricerca accademica, che ha rallentato la validazione scientifica di molte pratiche, alle narrazioni romantiche della natura, che complicano il dialogo con istituzioni e legislatori. Per superare l’impasse, alcuni progetti istituzionali di successo hanno spesso integrato principi permaculturali senza necessariamente adottarne il linguaggio ideologico, suggerendo percorsi possibili per una diffusione più ampia.

Particolare attenzione viene dedicata alle barriere normative che ostacolano l’applicazione di tecniche permaculturali: dalle classificazioni rigide dei terreni che non riconoscono sistemi agroforestali multifunzionali, alle restrizioni sui semi tradizionali che limitano la diversità genetica, fino alle complicazioni burocratiche per creare semplici sistemi di raccolta dell’acqua piovana. Da qui emerge un paradosso: mentre governi e istituzioni internazionali cercano disperatamente soluzioni per la crisi climatica e la sicurezza alimentare, spesso le normative esistenti penalizzano proprio quelle pratiche che sul campo dimostrano la maggiore efficacia. La sfida per il futuro della permacultura è anche trovare un linguaggio che preservi la ricchezza dell’osservazione ecologica senza cadere nell’antropomorfismo.

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E in futuro? La permacultura potrà rimanere confinata in una nicchia virtuosa ma marginale, oppure diventare uno degli strumenti principali per affrontare la crisi ecologica globale. Ma questa transizione richiede un cambio di paradigma che va ben oltre l’agricoltura: significa ripensare il rapporto tra produzione e conservazione, tra economia ed ecologia, tra sapere specialistico e saggezza tradizionale. Il tempo per questa scelta si sta rapidamente esaurendo.

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