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La questione salariale letta attraverso i dati Inps


Nell’analizzare i dati del Rapporto Inps sui salari, il primo interrogativo riguarda il recupero dall’inflazione, che si avvicina per le retribuzioni effettive più basse. L’incremento dei contratti collettivi nazionali e le possibili conseguenze.

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Retribuzioni effettive e inflazione

Il Rapporto Inps pubblicato la settimana scorsa offre informazioni rilevanti sul mercato del lavoro italiano, che servono ad analisi pertinenti. In un altro articolo selezioniamo e valutiamo alcuni dati sulla crescita dell’occupazione. Qui, invece, offriamo il quadro della situazione sulla questione salariale.

Il forte ridimensionamento della disoccupazione da un lato e il ritorno dell’inflazione dall’altro (nel 2022 oltre 8 per cento in media annua, livello mai visto dal 1985) hanno determinato la crescente attenzione alla questione salariale. E poiché il nesso tra retribuzioni-contributi-pensioni è strettissimo (si può dire il core business istituzionale dell’Inps), il Rapporto si sofferma dettagliatamente sulla dinamica delle retribuzioni effettive (somma algebrica tra quelle contrattuali e gli incrementi/decrementi dovuti alle più diverse ragioni: straordinari, superminimi, contrattazione aziendale, premi e così via).

Per i dipendenti full time e full year (8,7 milioni nel 2019 e 9,3 milioni nel 2024, poco meno del 50 per cento del totale), la retribuzione lorda media nel 2024 risulta di 40.256 euro, con una crescita del 9,5 per cento rispetto al 2019, appena superiore a quella delle retribuzioni contrattuali (+8,3 per cento) e significativamente distante dall’inflazione complessiva del periodo (+17,4 per cento): ciò significa che le retribuzioni medie lorde in termini reali sono retrocesse di circa 8 punti in termini di potere d’acquisto. Il dato medio nasconde importanti differenze in relazione ai livelli salariali: le retribuzioni medie e basse – quelle rappresentate dalla mediana, dal decimo e dal ventesimo percentile – hanno perso circa due punti in più. Viceversa, quelle più alte (rappresentate dal novantesimo percentile) hanno ridotto la perdita, limandola a 6 punti. Nel rinculo generale delle retribuzioni lorde la disuguaglianza è dunque aumentata.

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La retribuzione lorda – parametro cruciale ai fini pensionistici perché a essa sono correlati i contribuiti – non è un buon indicatore, invece, per valutare l’effettiva capacità di spesa: a tal fine occorre portare l’attenzione sulle retribuzioni nette. E poiché nel periodo in esame si sono sovrapposti numerosi interventi di modifica delle norme fiscali, mai rimaste invariate da un anno all’altro, si ottengono risultati ben diversi da quelli visti per le retribuzioni lorde. Infatti, per la retribuzione lorda mediana (che nel 2024 risulta di 33mila euro) la variazione del corrispondente valore netto rispetto al 2019 è pari al +16,9 per cento, prossima quindi all’annullamento dell’inflazione. E vicino al medesimo risultato ci vanno anche le retribuzioni più basse: per quelle corrispondenti al decimo percentile la crescita è del 14,5 per cento. Minore risulta l’incremento del netto per le retribuzioni più alte: per il novantesimo percentile si ferma all’11,2 per cento. Dunque, le retribuzioni alte si sono difese meglio – ma comunque in maniera insufficiente – sul mercato, come indicato dalla dinamica delle retribuzioni lorde, mentre le retribuzioni basse hanno maggiormente beneficiato degli interventi fiscali che, alla fine, si sono risolti di fatto in una quasi neutralizzazione selettiva, per fasce di reddito, dell’inflazione.

Il fisco ha sostituito ciò che non è stato possibile fare attraverso le vie ordinarie – soprattutto contrattazione nazionale – per adeguare le retribuzioni lorde.

Per completezza (almeno) due caveat importanti: a. la dinamica inflazionistica ha pesato selettivamente sui redditi più bassi, particolarmente esposti ai sostenuti (più della media) incrementi di prezzo di alcuni beni, alimentari in primis; b. le elaborazioni esposte da Inps sulla retribuzione netta, limitandosi a quella “nazionale”, non tengono conto delle addizionali locali e delle relative modifiche, negli ultimi anni più di frequente in aumento anziché in diminuzione.

La strana proliferazione dei Ccnl

Dal 2022 l’Inps utilizza il codice Cnel per identificare i Ccnl applicati ai dipendenti: il XXIV Rapporto vi dedica specifica attenzione, data la densità di implicazioni sul tema complesso della rappresentanza, non a caso poco frequentato dalle statistiche.

Nei mesi di ottobre del triennio 2022-2024 i Ccnl applicati continuativamente (almeno un dipendente interessato) nelle imprese extra-agricole risultano 771. A ottobre 2024 sono 870; 54 compaiono per la prima volta: 4 sono l’esito di confluenza o accorpamento di altri contratti, mentre i 50 “nuovi” interessano poco più di 6mila dipendenti, localizzati soprattutto al Centro e al Sud, con una media di poco più di cento dipendenti per Ccnl: dunque, solo enfaticamente possono essere classificati come “nazionali”.

Che senso ha il continuo incremento di Ccnl registrati presso il Cnel (1.026 vigenti a maggio 2025, di cui 936 per i dipendenti delle imprese extra-agricole)? Associazionismo buontempone? Solo una robusta ma innocua passione per il localismo e la parcellizzazione? O un tarlo destinato a espandersi, complici diversi fenomeni strutturali (digitalizzazione, terziarizzazione, smart working e così via), con conseguenze importanti, a partire dal fronte delle disuguaglianze salariali? Secondo i dati esposti da Inps, la quota di dipendenti il cui Ccnl è firmato da Cgil, Cisl, Uil (o da almeno uno di essi) è tuttora stabilmente superiore al 95 per cento; né, d’altro canto, tutti i dipendenti non rappresentati dalla triplice possono essere ricondotti a “contratti pirata”: non sono tali, ad esempio, i Ccnl firmati da importanti sigle manageriali, né i “contratti collettivi specifici di lavoro “ di primo livello (aziendale) che hanno sostituito integralmente il Ccnl (il caso più noto è Stellantis). Ma che in materia ci sia bisogno di maggior informazione e trasparenza è fuor di dubbio, anche per capire cosa si stia muovendo sotto l’incremento dei contratti collettivi nazionali e che conseguenze ne possono derivare.

L’analisi per Ccnl di appartenenza è rilevante anche ai fini della disamina delle disuguaglianze salariali. Inps documenta che nel 2024 il rapporto P90/P10, calcolato a partire dalla stima della retribuzione oraria lorda effettiva di ottobre, risulta pari a 2,6 per l’insieme di tutti i dipendenti privati (2,7 per i full time: in ogni caso valori non certo elevati in sede di comparazione internazionale), ma tende a essere nettamente inferiore all’interno dei singoli Ccnl: infatti considerando i nove contratti con il maggior numero di dipendenti (ne includono il 53 per cento) oscilla tra il 2,4 del turismo e l’1,6 delle cooperative sociali. 

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Altri elementi importanti di analisi e di valutazione critica si possono ricavare dalle informazioni fornite sui contributi sociali (aumentati del 5,9 per cento nel 2024), sulle agevolazioni alle assunzioni (ridotte rispetto agli anni precedenti), sulla spesa per la Naspi (insensibile al declino dell’occupazione). Anch’essi, mostrando lati rilevanti del mercato del lavoro – non sempre considerati adeguatamente -, servono ad analisi pertinenti, oltre l’utilizzo semplificatorio di pochi tradizionali indicatori.

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Bruno Anastasia

Bruno Anastasia si occupa di analisi del mercato del lavoro. Ha diretto fino al 2019 l’Osservatorio sul mercato del lavoro regionale di Veneto Lavoro. Dal 1994 al 2001 è stato presidente del Coses di Venezia e dal 2001 al 2006 presidente dell’Ires Veneto. Ha insegnato Economia del lavoro all’Università di Trieste, Corso di laurea in Scienze della Formazione. Dal 2000 al 2006 ha collaborato con il Gruppo nazionale di monitoraggio delle politiche del lavoro istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Dal 2007 al 2009 ha collaborato all’attività della Commissione di Indagine sul lavoro di iniziativa interistituzionale Cnel-Camera dei Deputati-Senato (Commissione Carniti).



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