Alla fine, tra la strada della “capitolazione ragionevole” (dazi al 15%) per sottrarsi a una costosa incertezza e la strada di una “calibrata rappresaglia” (contromisure o, come usa nei negoziati, credibile minaccia di contromisure temporanee) per ricondurre a più miti consigli l’amministrazione americana, ha prevalso la prima. Delle conseguenze economiche e politiche, per l’Europa e per gli Stati Uniti, ma anche per la Cina – giacché questa è una “partita a tre” – ci occuperemo per mesi e per anni. Anche perché restano aperte questioni che puntano al cuore del “paradosso dei dazi” di Trump e cioè al fatto che essi servono, in certa misura, a ottenere per le imprese americane il cedimento di barriere non tariffarie (fiscali e regolatorie), e dunque ad accentuare alcuni aspetti della globalizzazione economica e finanziaria; e non ad attutirli o rinnegarli, come vorrebbe la retorica populista fomentata dallo stesso presidente.
Qui ci interessa piuttosto allungare lo sguardo. Sia il percorso della “capitolazione” sia quello della “rappresaglia” avrebbero infatti richiesto – e richiedono nell’attuazione – una maggiore capacità politica dell’Europa. Non solo per una condotta che eviti ulteriori concessioni, tanto più necessaria dopo l’errore strategico iniziale di aver separato la discussione sull’economia da quella sulla sicurezza, ma perché, quale che sia il corso futuro della politica daziaria, la via d’uscita per l’Europa risiede altrove.
Chi pensa che a questo punto si possa, dopo l’accomodamento al new normal del 15%, continuare sulla vecchia strada commette un errore strategicoChi pensa che a questo punto si possa, dopo l’accomodamento al new normal del 15%, continuare sulla vecchia strada commette un errore strategico. La crescita europea è asfittica, e non da oggi: è stata all’incirca la metà, in media annua, di quella americana negli ultimi trent’anni (e quella italiana è stata la metà di quella europea: ma questo è in parte un altro discorso). L’Europa deve attrezzarsi per il mondo di oggi, nel quale gli Stati Uniti dichiarano – come in un sequel della decisione di Nixon che nel 1971 causò il collasso degli accordi monetari di Bretton Woods – la fine dei giochi “a somma positiva” della cooperazione post-bellica, che costruiscono fiducia e danno frutti nel tempo, e scelgono la strada dei giochi “a somma zero”, che danno talora vantaggi, competitivi ed elettorali, immediati, ma minano il capitale politico di fiducia su cui si fondano le relazioni internazionali.
Ma attenzione: gli effetti della Trumponomics, su crescita e inflazione, sono tutti da vedere e di là da venire, per non parlare di quelli sul costo del servizio del debito pubblico americano. Il rendimento dei Treasuries a 10 anni ha già superato la soglia del 4% e quello a 30 anni è già oltre il 5%. È questo il “tallone d’Achille” dell’economia americana, e riguarda i grandi detentori di titoli del debito pubblico americano: la Cina (15%), il Giappone (15%), i Paesi europei nel loro insieme (25%). È un filo doppio, e i Paesi europei dovrebbero far pesare e valere di più il loro ruolo di acquirenti di quei titoli; ma, in un mondo che ha nel dollaro l’attrattore primario di risparmio, il filo “tira” dalla parte degli Stati Uniti.
Certo, il mondo è più largo degli Stati Uniti e continua a crescere il peso, economico e politico, di altre aree del mondo e i Paesi europei non possono non tenerne conto; ma la diversificazione, pur utile e necessaria, dovrà comunque continuare a fare i conti con il peso della potenza americana, con certi interessi strategici di lungo termine, con le relazioni tra le imprese e perfino dentro le imprese, giacché una parte non trascurabile del commercio estero avviene dentro le grandi multinazionali.
In questo contesto, la strategia europea (se essa esistesse nella pratica) non potrebbe che essere una, e consisterebbe nel ri-orientare gradualmente un modello di sviluppo fin qui fondato sui bassi salari e sui surplus commerciali, bilanciandolo con uno trainato, in misura maggiore rispetto al passato, dalla domanda interna, dall’integrazione del mercato unico, da investimenti comuni finanziati tramite titoli di debito europeo – giacché aggiuntivi investimenti nazionali dividono chi ha “spazio fiscale” da chi non ha “spazio fiscale”. Tutto ciò consentirebbe anche un graduale assorbimento di quegli squilibri commerciali su cui instabilmente si regge l’economia globale. Il mondo non può stare in piedi su tre neo-mercantilismi l’uno contro l’altro puntati: quello americano che punta ad azzerare i deficit bilaterali, quello europeo trainato dalle esportazioni, con un eccesso di risparmio che finanzia lo sviluppo altrui, quello cinese della compressione della domanda interna che riversa capacità produttiva sull’estero.
L’Europa dipende dalla domanda estera molto più che la Cina e gli Stati Uniti e questo la espone al corso che alla politica dei dazi verrà impresso altrove
Il fatto è che l’Europa dipende dalla domanda estera molto più che la Cina e gli Stati Uniti – che hanno, in diversa misura, energia e materie prime (agricole e industriali, anche di tipo “critico”), oltre che capacità e massa per enormi investimenti nella conoscenza e nella scienza pura – e questo la espone oggi e la esporrà in futuro al corso che alla politica dei dazi (e non solo) verrà impresso altrove.
Ma è anche vero che c’è un eccesso di risparmio in giro per il mondo che continuerà a cercare affidabili occasioni di investimento e porti sicuri. Anche qui – in un mondo in cui la certezza del diritto e la rule of law vengono messi in discussione, anche nei Paesi avanzati – c’è uno spazio, certo maggiore che in passato, per l’Europa e per l’euro. Ma si tratta di mettere insieme tutti i tasselli del mosaico.
In ambito militare, Francia, Germania e Regno Unito hanno assunto di recente impegni importanti (il Northwood Statement tra Francia e Regno Unito; il Kensington Treaty tra Germania e Regno Unito). Si tratta di iniziative bilaterali e non dell’Unione (della quale il Regno Unito, come è noto, non fa più parte) nelle quali per il momento l’Italia non gioca alcun ruolo, per varie ragioni. Ma fa una certa impressione il fatto che si discuta, tra Paesi europei, della prospettica messa in comune di capacità militari e nucleari, mentre l’attuale proposta di quadro finanziario europeo pluriennale resta al palo di una grandezza complessiva pari all’1% (e poco più) del Prodotto interno lordo dell’Unione. Pare incredibile, oltre che contraddittorio, che si possa parlare di “euro-bombs”, ma non di “euro-bonds”.
I leader europei fanno finta di non capire: pensano forse che il “nuovo corso” sarà simile al “vecchio corso”. O forse pensano alle prossime elezioni. Ma non vi è oggi, per i cittadini europei, questione più importante della crescita politica dell’Europa. È questa la sua “arma nucleare”. Da essa dipendono tutte le altre, inclusa la capacità di difendere il modello sociale europeo e ogni altra cosa per cui valga la pena di battersi. L’uscita “in avanti” dell’Europa è l’unica alternativa all’uscita di scena.
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